RILETTURE DI STAGIONE

L’estate è il tempo mitico nel quale è possibile immergersi in letture avvincenti, che aiutano ad affrontare la fatica di vivere l’esistenza quotidiana. E’ anche il tempo in cui ci si può dedicare alla riscoperta di autori e libri che abbiamo conosciuto in altre stagioni della nostra vita. Di questi autori e di questi libri conserviamo spesso un ricordo piuttosto nebuloso, offuscato dal trascorrere del tempo, ma non per questo meno presente alla nostra anima. I giorni e gli anni trascorsi sono riusciti a distillare quella che, a torto o a riagione, abbiamo ritenuto allora l’essenza di quelle pagine dalle quali siamo stati avvolti. di questo libro, “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini (Einaudi Editore), ricordavo in particolare gli elementi lirici che mi sembravano rappresentare l’anima vitale dell’opera stessa.  Devo dire che la rilettura, senza cancellare il ricordo ma, al contrario, sovrapponendosi ad esso, ha consentito di cogliere meglio il passaggio dello scrittore dal lirismo poetico al neorealismo. Perché continuavo a ricordare un Vittorini lirico e poetico ? La risposta sta nell’ordine con cui ho affrontato la lettura dell’autore. Non ho mai amato seguire un percorso di lettura diacronico, preferendogli un ordine semicasuale. Ricordo di avere iniziato la mia conoscenza di Vittorini attraverso “Il garofano rosso”, che poteva soddisfare il desiderio di romanticismo e di giustizia sociale che era il segno distintivo di quella fase della mia vita.La mia conversazione silenziosa con Vittorini è proseguita nelle pagine di “Viaggio in Sardegna”, opera di un lirismo estenuante, che ha poi condizionato la lettura di “Conversazione”, facendo emergere dal testo solo gli aspetti lirici e mitici. Questo ricordo-guida ha fatto passare in secondo piano la realtà sociale che il libro vuole rappresentare, una combinazione  di povertà, speranza e mistero. Il mio invito è, dunque, a leggere, come sempre. Leggere è un modo di salvarsi la vita. Ma, oltre a leggere, invito anche a rileggere. E’ questo l’unico modo di preservare la memoria.

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VIALE DEL TRAMONTO

Andrea Camilleri deve essersi un po’ stancato del suo commissario Montalbano. Lo capisco: non deve essere facile per lui dover passare alla posterità per quello che ha inventato Montalbano, dimenticando tutto il resto della sua sempre godibile produzione. Magari preferirebbe essere ricordato come colui che ha riportato in auge uno stile di scrittura che non si rivedeva più dai tempi di Gadda. Uno stile commisto di italiano limpidissimo e di siciliano altrettanto limpido, due lingue a confronto che si intrecciano nel tessuto del racconto senza la benché minima smagliatura. Se mai ce ne fosse stato bisogno, Camilleri ha elevato il siciliano al rango di lingua, riuscendo a diffonderla in tutta la penisola, facendone assaporare la calda sonorità e le mille sfumature che lo impreziosiscono. Onore, quindi, a Camilleri per questa sua operazione culturale di portata inestimabile, della quale piacerebbe vedere altri esiti, con autori di altre regioni che si cimentano in operazioni di riscoperta della funzione unificante dei dialetti. Capisco benissimo, dunque, perché Camilleri si è stancato di Montalbano, e ne dà prova in questa ulteriore avventura del commissario, “La vampa d’agosto”  (Sellerio editore). Montalbano sta invecchiando, è più curvo, goffo, imbolsito. Il suo cervello, un tempo lucidissimo, si fa spesso sorprendere in contropiedi da menti più lucide e più giovani. Il suo intuito vacilla, si smarrisce, non trova più il bandolo della matassa. Con questi primi segnali, Camilleri ci preannuncia il ritiro del suo commissario, il suo futuro pensionamento. E’ un distacco lieve, quasi indolore, un addio ai suoi numerosi e affezionati lettori che, rassegnandosi a vederlo avviato ormai sul viale del tramonto, verseranno meno lacrime al momento del distacco. Coraggio, Montalbano! Il mondo è impietoso, dimentica presto i suoi miti, specie se pensionati. Coraggio, Camilleri! Che aspetti a farlo morire sulla scena e a dargli l’immortalità?

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GLI ESAMI SONO SEMPRE GLI STESSI

GLI ESAMI SONO SEMPRE GLI STESSI. Ho perso ormai il conto di quante volte ho fatto l’esame di stato – minuscolo d’obbligo, vista la scarsa rilevanza che questo esame va assumento anno dopo anno. Quello che per me e per tutti quelli della mia generazione è stato un vero e proprio rito di passaggio, è diventato oggi una specie di gioco delle parti. Lo studente gioca a fare il bravo studente, l’insegnante il professore granitico e accigliato, il presidente super partes è sempre fuori parte e fuori luogo. Paragonato con gli esami, cosidetti di maturità, che molti di noi ricordano, quello attuale è poco più di un obbligo contrattuale, che appartiene a quel contratto non scritto tra docenti e allievi. Appena un’ appendice, una clausola accettata e sottoscritta da tutte le parti senza particolare impegno. Fra qualche giorno dovrò interrogare – anzi, colloquiare con – i miei studenti, valutati sempre da me circa venti giorni prima. Cosa può essere accaduto di tanto sconvolgente in questi venti giorni, da trasformare gli asini in scienziati e gli scienziati in asini? Solo l’ideatore della nuova (e ormai logora) formula d’esame può saperlo. Ma c’è qualcosa che non cambia mai, immutabile dalla notte dei tempi. E’ la prosopopea con la quale gli ignoti estensori dei temi della prima e seconda prova continuano a fare il proprio lavoro. Dire che hanno perso ogni contatto con la realtà è un eufemismo. Se ci fossero stati inviati da un’altra galassia non mi stupirei. Mi stupisce, al contrario, questa scarsa sintonia con il mondo che li circonda, in particolare con l’universo giovanile. Hanno mai parlato di recente con un ragazzo di diciotto-diciannove anni? Non credo. Non saprebbero che dirsi, di che parlare. Forse non hanno mai frequentato le aule scolastiche da adulti,  non hanno avuto e non hanno figli adolescenti, in grado di fungere da tramite tra loro e i propri coetanei. Una modesta proposta: promoviamoli – gli adulti! – per rimuoverli, e sostituirli finalmente con qualcuno che conosce meglio le giovani generazioni degli adolescenti, ipodati e computerizzati. Ne avremo giovamento noi, gli allievi e le tracce dei temi d’esame.

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L’UNICA CERTEZZA…

Per chi, in qualche modo, si professa cartesiano come me, non è affatto una novità quello che viene esposto con grazia e leggerezza in questo libriccino di Luciano De Crescenzo, grande divulgatore di una disciplina ostica e per niente amata come la filosofia. “Il dubbio” (Edizione CDE, ma in origine Mondadori) – così si intitola questo piccolo volume – vuole sottolineare e ricordare ai più distratti e anche a coloro che troppo frequentemente rinunciano alla Ragione, preferendo delegare la loro esistenza alla Fede, che è proprio l’atto del dubitare la sorgente primaria di ogni forma di pensiero. E’, inoltre, dall’atto stesso del pensare che discende, secondo la filosofia cartesiana, l’accertamento dell’esistenza dell’uomo. “Cogito, ergo sum” si contrappone al “Sum, ergo cogito”, in una antitesi che ha, nel corso della storia, dato origine anche a conflitti sanguinosissimi, frutto di due opposte visioni del mondo. Oggi, il cosidetto “relativismo” è di nuovo al centro di pesanti accuse, come fonte di tutti i mali della società, un vero e proprio principio ultimo al quale si riconducono le vicende più scellerate ed efferate della vita moderna. Personalmente, invoco la necessità del Dubbio anche nel voler cercare di raggiungere il trascendente, senza timore di mettere in discussione anche quelle che riteniamo spesso verità assolute. “Dubitans cogito…”: è questa l’unica certezza che continuo a coltivare.

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QUELL’INCUBO CHIAMATO VITA

Leggere è un’attività che fa sempre bene, rileggere ancora meglio. In questo periodo, causa una nuova malattia, anche piuttosto fastidiosa, ho cercato di passare il tempo dedicandomi alla rilettura di un testo del quale conservavo solo un vago ricordo, accompagnato da un senso di malessere. Si tratta di una delle più notevoli opere di Franz Kafka, "Il processo" – edizioni Mondadori. Complice anche il non buono stato di salute, mi sono particolarmente immedesimato nella storia, riuscendo, stavolta, a penetrare a pieno la lucida follia di Joseph K., il protagonista, che sceglie di morire pur di non ammettere una colpevolezza inesistente e salvarsi. La vita di K. è rappresentata come un sogno pieno di incubi, nel quale personaggi misteriosi e inquietanti appaiono dalle tenebre in squallidi e indecifrabili ambienti, come accade nei sogni peggiori. L’impossibilità di continuare a vivere, schiacciati dal peso della Legge, tanto più forte e potente di noi, è l’inevitabile conclusione di questo dramma; il protagonista preferisce accettare la sua condanna piuttosto che vivere una vita di dubbi e incertezze, dove il caso diventa ineluttabile necessità. Un testo scritto con la forza intellettuale di chi, come Kafka, vuole ribellarsi alla propria condizione di malato, impossibilitato a vivere una vita piena e serena, e fa dello scrivere la sua vera forza vitale. Uno stile disadorno, reso con particolare efficacia dalla traduzione di Ervino Pocar, ma sorretto dalla logica ferrea e sottile della consequenzialità delle azioni e dei pensieri. La colpevole innocenza del protagonista è la condizione in cui si trova l’intera Umanità, condannata per una colpa che non sa neppure di avere commesso. Se ne sconsiglia la lettura a chi ha già la sua quotidiana dose di incubi e affanni personali.

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LA VITA E’ UN SOGNO?

… Oppure i sogni aiutano a vivere? Questo potrebbe essere uno dei tanti fili conduttori che si intrecciano in questo breve romanzo – racconto di Paola Mastrocola "Una barca nel bosco" – Edizioni Superpocket. Il sogno, doppio, è quello di due adolescenti, avulsi ed emarginati da una realtà scolastica che sembra caldeggiare una media "aurea mediocritas" a tutto svantaggio delle eccellenze e delle differenze. Il ritratto che Mastrocola dipinge in gran parte del libro è quello di una scuola superiore e di una università che, anziché essere, come di loro naturale pertinenza, luogo dedicato allo studio, alla riflessione e all’impegno, sono invece l’alternativa alla famiglia inesistente e al lavoro invisibile. Così cadono ad una ad una le illusioni del protagonista che, anziché coltivare i propri interessi per la letteratura e la cultura in generale, si trova costretto a ridursi ad una pallida imitazione del gruppo o del branco, pena l’assoluta esclusione ed emarginazione. Né la morale finale lascia scampo ad una ipotesi di futuro migliore: come deve duramente ammettere il protagonista,  il figlio del medico farà il medico, il figlio dell’ingegnere farà l’ingegnere e lui, figlio di pescatore, dovrebbe fare il pescatore,. Invece, rinunciando a seguire la tradizione di famiglia per inseguire un improbabile riscatto culturale, sarà costretto a costruirsi una nuova identità, in una società dove è ormai proibito sognare. Il giudizio di Mastrocola sul mondo della scuola, bene analizzato anche nel suo "La scuola raccontata al mio cane" è perentorio: la sua missione è da tempo fallita, anche perché è la scuola stessa che ha rinunciato ad avere una missione. La parte migliore del libro è, a mio avviso, quella nella quale Mastrocola descrive un mondo che conosce personalmente, mentre l’incisività di certe descrizioni e di certe osservazioni viene meno nella parte finale dedicata alla costruzione di una nuova identità da parte del protagonista. Nel complesso una buona lettura, consigliabile a chi continua ad avere un’idea "romantica", ormai fuori dal tempo, della scuola, per poter capire come cambiano i tempi (e noi con loro…)

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QUATTRO PASSI NEL PASSATO

Leggere “I sotterranei di Bologna” di Loriano Macchiavelli è stato per me come tornare nel passato. Sono stato, infatti, molti anni fa, studente universitario presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna e di questa esperienza conservo un ottimo ricordo. E’ stato proprio durante i miei studi universitari che ho iniziato a leggere intensamente e ad acquistare libri, frequentando con regolarità le bancarelle della Fiera del Libro sotto i portici di piazza Maggiore, come pure quel paradiso del lettore che rimane tuttora per me la libreria Feltrinelli. Venendo dalla mia città di provincia, in cui all’epoca le librerie erano piuttosto scarse e modeste, e dove si entrava quasi esclusivamente per ordinare i libri di scuola, ho potuto senz’altro apprezzare la varietà e dinamicità delle grandi librerie di Bologna, dietro le quali c’erano spesso grandi case editrici. Tornando al libro, credo che l’impulso di acquistarlo sia stato dovuto in parte alla nostalgia di quei tempi, ma anche alla discreta notorietà che gode presso di me l’autore. Macchiavelli, infatti, in coppia con Francesco Guccini (sì, proprio lui, il noto cantautore!), ha realizzato una piccola serie di gialli che hanno per protagonista il maresciallo dei carabinieri Santovito, spesso al centro di vicende di paese, ma che hanno per sfondo una buona parte della storia d’Italia. Ne “I sotterranei di Bologna” il protagonista è il sergente Sarti Antonio, della polizia, personaggio, peraltro, portato sul piccolo schermo anni fa da Gianni Cavina, con una interpretazione veramente convincente. Afflitto da mille malanni, solitario e scontroso, di un estremo rigore morale, è costretto ad agire in una realtà quotidiana che non ama, fatta una umanità proterva e intrigante, sempre alla ricerca di facili scorciatoie. Particolarmente interessante, dal punto di vista narrativo, la frequente invasione nel racconto di un terzo personaggio, quasi un prolungamento dello scrittore stesso, una specie di spettatore attivo, che commenta e sottolinea l’azione e dà corpo alle fantasie ed alle elucubrazioni di Sarti. La vicenda narrata, poi, propone una Bologna inedita, la Bologna dei torrenti e dei canali che, nel corso dei secoli, sono scomparsi sotto l’asfalto e il cemento, ma che, tuttora, percorrono la città come vene sotterranee. Consigliato a chi ha conosciuto Bologna, anche se per poco, e ne ha serbato un piacevole ricordo. Consigliato anche a chi ama i gialli e i personaggi veri. Consigliato, infine, a chi cerca nella letteratura stili narrativi non convenzionali.

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L’ORA D’ARIA

Noi forzati dell’esistenza avvertiamo, come i veri reclusi, il bisogno dell’ "ora d’aria", un’ora della giornata da dedicare esclusivamente a noi stessi e alla quale sforzarsi di non rinunciare. Una raccolta di brevi racconti dell’inesauribile Ray Bradbury sembra suggerire, fin dal titolo, il momento più adatto della nostra giornata nel quale raggiungere questo scopo: "Molto dopo mezzanotte" (Oscar Mondadori). La raccolta viene presentata sotto il genere "fantascienza" ma, in realtà, l’ambientazione di molti racconti appartiene alla quotidianità, con escursioni anche nella fantasy e nell’horror. Tutto questo per sottolineare la poliedricità di un autore che non rifugge dal confrontarsi anche con tematiche, che risultano marginali rispetto al suo percorso narrativo principale. Particolarmente apprezzati i racconti ambientati nella immobile atmosfera del pianeta rosso, il cui fascino ha così tanto influenzato la produzione maggiore di Bradbury, quel "Cronache marziane" che, trovandone il tempo, aspiro tanto a rileggere e che consiglio sempre agli appassionati del genere "fantascienza". E, se a volte la credibilità scientifica difetta, che importa? Il fascino della narrazione è tale da compensare e perdonare le lacune, trasportandoci in mondi immaginari nei quali trascorrere serenamente la nostra "ora d’aria". Molto dopo mezzanotte…

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AMORE E GUERRA

Amore e guerra è un binomio inscindibile che attraversa e connota la grande letteratura mitteleuropea che, storicamente, fa riferimento all’epoca dell’impero asburgico. Il senso dell’onore, le avventure galanti, unite agli echi delle grandi battaglie, il tintinnio degli speroni e delle sciabole, il frusciare delle ampie gonne nei balli di palazzo, sono sentimenti e sonorità che affollano orecchi e mente nel corso della lettura dei romanzi di Joseph Roth. Ma non è di lui che qui si parla, piuttosto di un suo epigono, i cui temi sembrano direttamente discendere dal grande autore de "La cripta dei cappuccini". Alexander Lernet-Holenia non ha una simile notorietà in campo internazionale, ma merita tutta la nostra attenzione. "Marte in ariete" – Edizioni Bompiani, con i dovuti salti di tempo (estate 1939) e di spazio (Vienna, ma anche la Polonia) ci propone, dal punto di vista di un ufficiale austriaco, inquadrato nell’esercito tedesco, vicende assai simili a quelle ambientate nella grande Austria imperiale nel momento dell’inizio della Grande Guerra. Un romanzo rivelatore come pochi dell’atmosfera che pervadeva l’esercito tedesco, in particolare i suoi ufficiali cresciuti con il mito dell’onore e della fedeltà, al momento dello scoppio del secondo conflitto mondiale: miti e illusioni di un mondo senza tempo che la crudeltà della guerra farà crollare. Una storia anche d’amore, con finale veramente a sorpresa. Consigliato a chi, come me, ma anche come tanti, ha profondamente amato Roth e vuole gettare uno sguardo al di là della superficie della Storia.

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I MILLE VOLTI DI BRADBURY

Nel mio immaginario di lettore onnivoro, Ray Bradbury è sempre stato uno scrittore di fantascienza, uno dei più grandi che si siano mai cimentati in questo genere. Basterà, come promemoria, citare lo straniante e malinconico "Cronache marziane" e l’utopico e inquietante "Fahrenheit 451", reso celebre dal film di Truffaut. E’ stata davvero una piacevole sorpresa la lettura di questo volumetto, "Constance contro tutti" , edito negli Oscar Mondadori, e, certamente, una vera rivelazione. Bradbury che si cimenta nel genere hard boiled, seppure rivisitato alla sua maniera, non è cosa di tutti i giorni. E, bisogna ammetterlo, l’operazione riesce con successo: pur attingendo agli stereotipi del genere, dall’investigatore lucido ma poco portato all’azione, alla dark lady, al mistero di famiglia, ognuno di questi elementi viene connotato dall’autore in maniera estrememente innovativa. Se a questo si aggiunge una scrittura gradevole e stilisticamente ineccepibile, eccoci subito in presenza di un piccolo capolavoro. Una lettura, insomma, che soddisfa e diverte, senza costringerci alle grandi abbuffate dei best seller natalizi, che saziano molto il corpo ma poco lo spirito. Lo metterò nello scaffale più alto, per poterlo lasciare invecchiare e rileggerlo nel tempo: sono certo che, come un ottimo vino, lo troverò ancora corposo e spumeggiante.

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