UNA FINESTRA SUL MONDO

"Una finestra vistalago" di Andrea Vitali (Mondolibri)

A costo di sembrare ripetitivo, torno per l’ennesima volta a parlare di quello che chiamo lo "stile Vitali". E’ uno stile narrativo che, come credo di aver detto altre volte, apprezzo particolarmente, per la sua sobrietà e, soprattutto, per la sua precisione, quell’esattezza che hanno praticato, e di cui hanno tessuto le lodi, scrittori del calibro di Calvino, Borges e, prima ancora, dei grandi romanzieri francesi dell’Ottocento, tra cui giganteggia Balzac.
Ora, non ho la pretesa – né, tanto meno, credo che l’abbia lo stesso Vitali – di includere il pur bravo scrittore nel novero di questi grandi, ma credo che scegliersi dei modelli di riferimento per il proprio stile narrativo possa giovare moltissimo, all’autore in particolare e alla narrativa in genere.
La vicenda che viene narrata nel romanzo è di una semplicità sconvolgente, pur nella complessità dell’intreccio. Attraverso la figura del protagonista, viene rievocato quel periodo della storia del nostro Paese che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Pur osservando il mondo da un punto di vista ristretto, come può essere quello del piccolo centro lacustre di Bellano, Vitali riesce a rendere universali le sue storie, veri e propri "racconti morali", in cui il gesto conta quanto i principi che lo ispirano.
In Bellano si raffigura tutta l’Italia di quegli anni, con i cambiamenti e, a volte, gli stravolgimenti, che la trasformazione di una società agricola in una industriale ha operato sulla cultura e sugli stili di vita del nostro paese.Molti dei malesseri e dei vizi, di cui soffre la nostra attuale società, hanno radici proprio in quell’epoca.
Ho acquistato questo libro sapendo che il tempo dedicato alla sua lettura non sarebbe stato sprecato. Al contrario, alla fine sono rimasto, ancora una volta, piacevolmente sorpreso di come l’autore, con poche parole, riesca a delineare i contorni di un personaggio o di un ambiente. Gli ingredienti, quelli di una grande "cucina" letteraria, sono semplici, eppure la loro combinazione produce un racconto perfettamente riuscito, un "piatto" equilibrato e, soprattutto, digeribile, tanto per continuare la metafora culinaria.Le pagine calibrate, di una scrittura attenta e sorvegliata,stimolano il piacere di continuare la lettura ininterrottamente, per giungere all’ineludibile parola "fine", che vorremmo, tuttavia, non arrivasse mai.
Vorrei che lo stile “Vitali” si estendesse a macchia d’olio, come un contagio, e raggiungesse certi scrittori di best seller, dai contratti milionari, che si direbbero pagati un tanto a riga, e che, forse proprio per questo motivo, infarciscono i loro libri di parole, di cui spesso si potrebbe fare volentieri a meno, senza peraltro cambiare il senso della frase. Ma, si sa, un best seller che si rispetti, deve superare almeno le quattrocento pagine.

Consiglio questo libro a chiunque, soprattutto a chi fa della mancanza di tempo un pretesto per non aprire neppure il canonico libro all’anno. Da leggere, anche al mare o in montagna, per cercare di riconciliarsi, magari definitivamente, con la lettura. 

 

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | 5 commenti

CAVEAT EMPTOR!

 “La cattedrale del mare” di Ildefonso Falcones (Longanesi)

Ogni volta che ho per le mani un libro, che reca in copertina una fascetta con diciture tipo “Un milione di copie vendute”, oppure “Un fenomeno mondiale”, vengo assalito da una improvvisa insicurezza e da un dubbio. “Sarò degno dell’impresa?”, è la mia prima domanda, e non tanto perché non è sempre facile arrivare in fondo a libri simili, tipico esempio di quella che definisco “letteratura bulimica”, quanto piuttosto perché schierarmi apertamente contro le opinioni di quel milione di persone che hanno acquistato il libro potrebbe procurarmi più di un fastidio. Mi consola pensare che il fatto che abbiano acquistato il libro non significa necessariamente che lo abbiano letto.
Provo così, attraverso le mie osservazioni – personalissime, come sono solito ripetere – a far desistere dall’impresa di arrivare in fondo a questo ponderoso tomo chi, magari in occasione delle vacanze estive, ha già iniziato a togliere la polvere a qualche libro, abbandonato dalle ferie dello scorso anno sul comodino, da portarsi dietro per quelle notti in cui il gran caldo rischia di non fargli prendere sonno. Stia tranquillo il lettore: posso garantire che certi libri funzionano meglio di qualsiasi sonnifero e che questo, in particolare, renderà piuttosto agevole il suo ingresso nel regno di Morfeo.
Credo, finora, di aver detto o scritto una o due volte al massimo che un libro, che avevo appena terminato di leggere, non mi era piaciuto, e non certo perché trangugio, metaforicamente, qualunque testo mi venga propinato.
Non mi definisco un lettore di gusti facili, tutt’altro; quando si tratta di spendere parte del mio tempo sopra un testo, di solito opero una scelta particolarmente accurata, e se mi dedico a qualche assaggio, a qualche escursione nel poco o per niente noto, lo faccio con molta cautela. Tra i criteri che ho adottato per selezionare qualche nuovo autore dal vastissimo menu che gli editori grandi e piccoli presentano quotidianamente sul mercato, non c’è sicuramente quello di scegliere qualche nuovo libro da leggere dalla classifica dei più venduti. Preferisco, piuttosto, affidarmi al passaparola di amici e di conoscenti, che so per esperienza essere attenti o curiosi lettori, un po’ come me, del resto. Insomma, leggo un nuovo libro, anche di qualche sconosciutissimo autore, perché qualcuno, di cui mi fido, me ne ha consigliato la lettura, o, al limite, perché la critica, quella fornita di tutta l’autorevolezza necessaria, ne ha parlato molto bene.
Venendo al testo in questione e alle vicende in esso narrate, si racconta, in estrema sintesi, la storia di un’esistenza difficile e tormentata di un uomo che, nato schiavo, acquista la sua libertà e raggiunge, alla fine una solida posizione economica. Tutto questo avviene nella città di Barcellona, nello scenario di una Spagna medievale, in cui sono protagonisti anche i grandi eventi della Storia: guerre, carestie, pestilenze, l’eterna caccia agli ebrei, il conflitto con gli arabi, allora presenti in gran parte della Spagna. Alla grande Storia sullo sfondo, si contrappone, in primo piano, la cronaca quotidiana, quella che il trascorrere del tempo e l’offuscarsi della memoria finiranno per trasformare in storia.
Fatte le dovute proporzioni, l’opera richiama alla mente i nostri “Promessi sposi”, trasportati nel quattordicesimo secolo, ma, probabilmente, la sensazione è dovuta più al contesto storico in cui si cala la cronaca quotidiana dei personaggi che non alla volontà dell’autore di imitare il capolavoro manzoniano. È proprio in quanto allo stile che le due opere si allontanano; alla continua e faticosa riscrittura di Manzoni si contrappone la scrittura istintiva e affrettata di Falcones, che si traduce in uno stile non proprio irreprensibile. Ed è questa indubbiamente la maggiore pecca del libro, frutto, non si sa bene se della trasandataggine dell’autore o della scarsa dimestichezza con la lingua, italiana o spagnola o entrambe, del traduttore. Non credo che lo spagnolo in sé produca frasi che si riescono a rendere con difficoltà in italiano; penso, ad esempio, ad opere di Borges o di Cervantes e non osservo in quei testi la stessa sciattezza nella scrittura o nella traduzione.
Giunto ad oltre quattro quinti del libro, devo a malincuore confessare che questa lettura mi ha stancato, per cui ho deciso di avvalermi di uno dei più sacri diritti del lettore, declinati nel celebre decalogo di Pennac, e precisamente del II: “Il diritto di saltare le pagine“, che, unitamente al III: “Il diritto di non finire il libro”, hanno determinato l’anticipata conclusione della mia fatica. Cave librum!

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | 6 commenti

DOPPIO CAMILLERI

"Le ali della sfinge" – (Sellerio editore) e "La pensione Eva" – (Mondadori) di Andrea Camilleri

Per chi non è sufficientemente allenato alla lettura dei libri di Camilleri, potrebbe risultare alquanto faticoso seguire le storie narrate nelle sue opere più recenti. L’idea iniziale di contaminare la lingua italiana con quella siciliana – perché di lingua vera e propria, e non di semplice dialetto, si tratta! – ha finito per prendere la mano allo scrittore. Se, infatti, nei primi libri dell’autore nel testo prevalentemente italiano venivano di tanto in tanto inseriti termini e modi di dire siciliani, adesso la presenza del siciliano è diventata predominante. Non che la lettura non risulti piacevole come il solito, tutt’altro. Il problema nasce soprattutto per quei lettori che si accostano per la prima volta alla scrittura di Camilleri e che potrebbero avvertire una certa difficoltà nel comprendere lo sviluppo stesso delle vicende narrate. In qualcuna delle prime opere,lo scrittore, o molto più probabilmente l’editore, aveva aggiunto alla fine del libro un glossario, essenziale per poter cogliere a pieno il senso di alcune parole e, quindi, quello del racconto. Adesso, forse perché la maggior parte di coloro che acquistano i libri di Camilleri sono lettori abituali delle sue opere, anche questo minimo aiuto è stato soppresso. Invocandone il ripristino nella prossima produzione, non posso fare a meno di constatare come il percorso artistico di Camilleri si sia, in qualche modo, involuto e la vena artistica alquanto inaridita. Certo, le avventure di Montalbano si leggono sempre con vivo piacere, tuttavia si ha la sensazione che il personaggio sia giunto, per così dire, al capolinea. E’ pur vero che l’ambientazione rassicurante delle storie contribuisce a rendere i personaggi più familiari e certamente ad invogliare migliaia di lettori "pigri" ad aprire almeno il fatidico unico libro che, stando almeno alle statistiche, molti leggono nel corso di un anno. La cosa che, però, appare con evidenza, più nel secondo che nel primo libro, è che Camilleri mette in scena personaggi che altro non sono che un suo alter ego, colto in due diversi momenti della vita. Se Montalbano dà corpo ai pensieri di un anziano scrittore, sempre più amareggiato e stanco di lottare contro soprusi ed ingiustizie, quello del giovane Nenè è il ritratto di un Camilleri adolescente, impegnato in vicende estremamente verosimili, anche se mitizzate ed enfatizzate dai riflettori della memoria. Ogni pagina è condita con quel tanto di ironia che sdrammatizza persino le situazioni più delicate. Nel complesso, però, la vicenda del giovane Nenè appare difficilmente comprensibile ad un lettore contemporaneo. L’ambiente in cui si svolge la storia, quello delle cosidette "case chiuse" è completamente sconosciuto persino a quelli della mia generazione. Difficile, quindi, per un lettore giovane, penetrare nelle misteriose atmosfere che, stando almeno ai racconti di chi le ha a suo tempo conosciute, sembrano sempre circondare questi luoghi. Consigliati soprattutto a chi ha seguito da tempo il percorso artistico dello scrittore, con la consapevolezza, tuttavia, che questi libri non aggiungono niente alla sua fin troppo consistente produzione. Ma, per chi si è lasciato appassionare dalle sue storie, Camilleri non si discute: si ama.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | 4 commenti

IL CALORE DEL GIALLO

“Morte di un medico legale” di P.D.James (Oscar Mondatori)

P.D.James appartiene di diritto a quella categoria di autori che potrebbero dedicarsi a qualsiasi genere letterario, tale è la loro abilità narrativa. La scelta di dedicarsi al genere “giallo” o detective story, come è più universalmente conosciuto, deve essere stata ispirata, senza dubbio, da una certa curiosità per i fatti della vita e dalla sua abilità nel saper cogliere, e restituire poi nella pagina scritta, anche i minimi dettagli di questi fatti.
Lo stile della James, come sempre, continua ad affascinare il lettore “evoluto”, quello particolarmente difficile da accontentare. Un buon lettore, in un giallo classico, riesce a terminare una pagina, al più, in un paio di minuti, senza poi tornarci sopra, seguendo unicamente il filo della vicenda. I libri della James, come quelli di ogni scrittore di razza, richiedono tempi ben più lunghi, se si vuole gustare a fondo la ricercatezza delle descrizioni ed apprezzare la ricchezza dei particolari.
Nessuna pagina è scontata o eccessiva, tutta la narrazione avviene in un tono pacato e familiare, come se fossimo seduti insieme alla narratrice accanto al caminetto, in una lunga e fredda sera d’inverno. La continua introspezione dei personaggi non infastidisce, né appesantisce la narrazione, a condizione che si consideri la lettura un piacere e non un obbligo da assolvere nel minor tempo e con il minor impegno mentale possibile.
Perché, questo va detto senz’altro, una lettura del genere richiede tempo. Chi ama leggere non va alla ricerca di primati da Guinness, non è interessato al rapporto tra lunghezza del libro e tempo di lettura, legge per il solo piacere di farlo.

Il fatto che sorprende maggiormente nella lettura di un giallo è il desiderio che avverte il lettore di ritornare su pagine già lette, provando, anche nell’occasione, il medesimo piacere e la stessa sorpresa della prima lettura. Oltre a questo, si apprezza anche la possibilità di abbandonare e poi riprendere in seguito la lettura, senza perdere nulla dell’atmosfera del romanzo. Bastano, infatti, poche righe, al massimo un paio di pagine, per sentirsi nuovamente immersi nella storia, come se ce ne fossimo appena staccati.
Della scrittura della James continua a colpirmi un uso quasi ridondante degli aggettivi. Ogni oggetto, ogni elemento del paesaggio o dell’abbigliamento di un personaggio, sono dettagliati con una scelta accurata di particolari, che danno maggior risalto alla trama, come i ricami che impreziosiscono un tappeto ben intessuto. Si avverte in ogni pagina della James uno sforzo, teso a rendere in tre dimensioni, e a colori vivaci, l’immagine altrimenti piatta dell’oggetto o del personaggio, descritto sulla carta nero su bianco.
Anche se il paesaggio è sempre ben delineato, attraverso una serie di dettagli che intendono renderlo familiare al lettore, la maggiore cura è dedicata al paesaggio interiore, quello dell’animo umano, infinitamente più vario e mutevole di quello della Natura.
La tesi del romanzo potrebbe semplicemente essere riassunta con una breve formula: “Anche chi ha a che fare con il crimine per motivi professionali, può essere a sua volta vittima di un crimine”. Ma, per saperne di più, suggerisco una lettura più completa del romanzo.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | 2 commenti

LE CENERI DELLA MEMORIA

“Le ceneri di Angela” di Frank McCourt (Adelphi)

Il mio amore per la scrittura di Frank McCourt, solida e leggera al tempo stesso, è nato a prima vista, tra le pagine del suo terzo romanzo, “Ehi, prof!”, dove descrive la sua lunghissima attività di insegnante in una scuola superiore americana. Interrotta temporaneamente questa lettura, come a volte capita quando qualcosa di più interessante o di più necessario monopolizza l’attenzione, ho invece divorato – termine, nell’occasione, assai inesatto ed approssimativo – le pagine dell’opera di esordio di McCourt. 
In realtà queste pagine, più che divorarle, le ho assaporate e gustate fino in fondo, come un buon formaggio stagionato o un eccellente vino d’annata, piacevolmente sorpreso dal fatto che lo scrittore irlandese fosse riuscito a fare centro al suo primo tentativo.
Uno scrittore stilisticamente maturo fin dall’esordio è, generalmente, cosa tanto rara quanto preziosa. Nella maggior parte dei casi, lo stile è una lenta e faticosa conquista,che passa attraverso decine di tentativi ed errori, frequenti riscritture di brani che, appena usciti dalla penna, si credevano assolutamente perfetti. Eppure, già dal suo primo romanzo, lo scrittore manifesta la sua “autorialità”, quella rara capacità di arricchire lo spirito e la mente di quanti attraversano le pagine di un vero artista. Se si scorrono le sue note biografiche, si scopre che il successo di McCourt non è, in alcun modo, dovuto al caso, ma al continuo allenamento alla scrittura, praticato nel corso dei lunghi anni della sua carriera di insegnante.
Ecco un altro dei testi letti durante la mia lunga degenza ospedaliera. Non certamente un testo leggero, al pari di altri di cui ho già parlato, piuttosto un’opera narrativa che si avvale di una scrittura qualitativamente elevata, complessa nella sua semplicità e particolarmente personale. Una scrittura “confidenziale”, termine con cui venivano definiti certi cantanti di fine anni ’50, quando si voleva intendere che parlavano, sottovoce e con discrezione, al cuore ed ai sentimenti di chi li sapeva ascoltare. McCourt è riuscito a trasfigurare, con l’ironico distacco del ricordo, vicende che altrimenti sarebbero la normale cronaca di un’esistenza quotidiana, fatta di stenti e sofferenze. Invece, tutto scorre leggero, in un intreccio di storie a volte persino incredibili nel loro crudo realismo.
Il tempo, per fortuna o purtroppo, consuma i ricordi, assottigliandoli, limandone i contorni e rendendoli indefiniti Quello che resta è una polvere sottile, alla quale cerchiamo, di tanto in tanto, di ridare forma e spessore, ricombinandola, tuttavia, in maniera diversa, spesso quasi casuale,
Avevo già apprezzato la versione cinematografica del romanzo, della quale conservo soprattutto il ricordo di due immagini: la faccia dura e caparbia di Angela e di quella del piccolo Frank, altrettanto dura e caparbia.
Leggendo questo libro, mi sono tornate in mente situazioni ed esperienze vissute nella mia infanzia, quando la povertà, e persino la miseria, erano la regola e un timido benessere l’eccezione. I miei coetanei, quelli la cui infanzia si colloca a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, ricorderanno senz’altro quel tempo in cui i desideri, diversamente da quello che accade oggi, superavano di gran lunga le possibilità. Se credevamo, ed abbiamo creduto anche in seguito, di essere stati poveri, basta leggere questo libro per avere un’immagine della reale povertà.
La produzione di McCourt, come quella di un ottimo vino d’annata, è molto ridotta e va gustata fino all’ultima parola. Non senza ironia, a chi gli chiede il motivo di una produzione così modesta, e del perché ha iniziato a dedicarsi alla scrittura a tempo pieno in così tarda età, lui è solito rispondere: “Prima non avevo tempo, dovevo lavorare”. Se avete bisogno di togliere un po’ di polvere dai ripostigli della memoria, se credete che la vostra esistenza sia la più infelice delle esistenze possibili, leggete questo libro. Non può farvi che bene.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | Lascia un commento

ALLA RICERCA DI SE’

“Testimone inconsapevole” di Gianrico Carofiglio (Sellerio editore)

Quando terminai di leggere questo libro, ero in uno stato d’animo completamente diverso da quello attuale. Avveniva prima dell’8 gennaio 2007  – data memorabile, almeno per me, l’inizio della mia terza vita – e non riuscivo a mettere insieme le parole per esprimere razionalmente le sensazioni provate nel corso della lettura. Le cause di questa mia temporanea afasia sono facilmente immaginabili per chi mi conosce e mi pratica. Passata la bufera, riesco adesso a ridare forma ai miei pensieri, che proprio quel vento impetuoso aveva disperso, anche se ancora le idee riescono a farsi strada nella mente con una certa difficoltà. Per rubare il titolo all’autore, questo libro è stato “testimone inconsapevole” del mio travaglio interiore. 
Avevo già assaporato la scrittura solida e compatta di Carofiglio (vedere post del 6 novembre 2006 su “Ad occhi chiusi”). Per questo, probabilmente, ho iniziato la lettura con un’idea preconcetta, indubbiamente falsata dall’approccio iniziale con lo scrittore, avvenuto attraverso un’opera, dalla quale risalta uno stile più maturo, che non si può pretendere di trovare in questa che è la sua opera prima di narratore. L’impressione, suscitata da queste pagine, è stata quella di uno scrittore alla ricerca di se stesso e del suo personale stile di raccontare. Nella lettura del precedente libro si aveva la precisa sensazione che tutti i personaggi, anche se incontrati per la prima volta, fossero, in un certo senso, familiari e parte integrante del mondo del racconto. Questa volta, mi è capitato di chiedermi spesso perché l’autore volesse dedicare così tante parole per delineare i contorni dei suoi personaggi, quasi temesse che il lettore li avvertisse estranei al mondo che prendeva vita e corpo nel corso della lettura. La prima opera di Carofiglio sembra rivolta ad un lettore pigro e dalla fantasia atrofizzata, che ha bisogno di conoscere una serie indefinita di dettagli su ogni singolo personaggio, per poterlo accettare come verosimile e riuscire in qualche modo ad immergersi nel mondo del racconto. Tralasciando, però, un certo indugiare prolisso in situazioni, che sono collaterali alla vicenda, ciò che si riesce a cogliere come elemento positivo è il fatto che una lettura del genere consente di sorprendere l’autore all’inizio del suo percorso artistico, quando ogni cosa è ancora in divenire e tutte le strade sono aperte, quando ancora si stanno affinando gli strumenti linguistici per esprimere quello che si sente dentro e che, a volte, non riesce a trovare immediata rispondenza nelle parole che si stanno tracciando sulla carta.
Potendo esprimere un’opinione strettamente legata al mio gusto personale, avrei preferito che l’autore avesse trasportato il lettore direttamente “in medias res”. Sono certo che la qualità della narrazione, specialmente se si considera il genere di riferimento della detective story, avrebbe avuto senz’altro molto da guadagnare, creando fin dalle prime pagine quell’atmosfera di incertezza e di mistero che caratterizza il genere.
Quanto alla scelta dell’ambientazione del racconto nella città di Bari, credo che le storie di Carofiglio non potrebbero essere ambientate altrimenti che in un luogo che l’autore conosce alla perfezione e sa ritrarre con pochi tratti essenziali, incorporandolo nella trama della narrazione.
C’è, infine, qualche considerazione da fare sul significato di scrittura e riscrittura. Esistono narratori che hanno la buona pratica di produrre versioni differenti della stessa storia e questo è, in senso stretto, il significato di riscrittura. Ci sono prove celebri offerte da Manzoni ed altre non meno interessanti offerte da Carver. Ci sono, poi, altri autori che, nel corso della loro esperienza narrativa, non fanno altro che raccontare in trame e in libri diversi la stessa storia. Stessi personaggi principali, stessi luoghi, stesso andamento del racconto. Cambiano solo alcuni personaggi secondari e alcuni dettagli, spesso del tutto ininfluenti per la storia narrata. È quello che si potrebbe definire il meccanismo della serializzazione. Chi ne guadagna dalla riscrittura di entrambi i tipi è lo stile, che si affina, si fa più asciutto ed allusivo e, soprattutto, più personale. Così è facile riconoscere fin dai primi paragrafi un libro di Simenon, uno di Gadda, oppure uno di Pavese, come, del resto, dalle pennellate, dai colori o dalla luce si riconosce un quadro di van Gogh, di Renoir o di Cezanne. Carofiglio ha scelto la seconda modalità di riscrittura, sorprendendo il lettore per aver raggiunto con pochi tentativi un notevole equilibrio stilistico tra storia narrata e linguaggio usato.

Dedicato a mio cugino Francesco, nel giorno del suo compleanno.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | 2 commenti

SURREALISTI E IPERREALISTI

I libri: Osvaldo Soriano – “Triste, solitario y final” (Einaudi) – Jo Soares – “Un samba per Sherlock Holmes” (Einaudi)

La letteratura sudamericana contemporanea è ricca di eccellenti interpreti del genere narrativo, dei quali l’argentino Soriano e il brasiliano Soares sono esponenti di spicco e di qualità. Le loro opere si innestano nel solco di quelle più note e più celebrate di Garcia Marquez, che aprirono negli anni ’70 la grande stagione della letteratura dell’America del sud, all’epoca poco o per niente conosciuta dal vasto pubblico, e che ancora continua a dare i frutti più inattesi. Non fanno eccezione queste due opere, per le quali non sembra eccessivo parlare di letteratura “neosurrealista”, un genere, se tale si può definire, nel quale gli autori sudamericani sembrano trovarsi particolarmente a loro agio. Le invenzioni fantastiche, che connotano le opere di questi autori, si contrappongono al crudo realismo di nordamericani ed europei, impegnati a dare una rappresentazione del mondo quanto più dura e corporea possibile. Sarà che, forse, vivendo in una realtà già di per sé molto difficile, i sudamericani preferiscono evadere nella fantasia e nel sogno. I nordamericani, al contrario, in particolare gli autori statunitensi, hanno sempre avuto un rapporto immediato con la realtà, della quale amano ritrarre aspetti minimali e singolari, per enfatizzarli e farli assurgere al rango di rappresentazione del mondo. Una rappresentazione del mondo e della vita, che diventa, per questo, “più grande della vita” stessa. Diversa sembra essere, al contrario, la posizione dei sudamericani nei confronti del mondo, vissuto spesso quasi in un sogno, nel quale i corpi perdono la loro fisicità, per trasformarsi in immagini incorporee, quasi ectoplasmi fluttuanti in un non-spazio atemporale. La combinazione tra l’amore per il cinema comico, in particolare quello di Stanlio e Ollio, e la passione per il noir americano, produce la trama sulla quale Soriano intesse un’orditura fittissima, fatta di citazioni, letterarie e non, e di personaggi, tra i quali egli stesso finisce per costituire un elemento essenziale. Come in qualche pellicola recente, in cui personaggi di cartone animato convivono ed interagiscono nella stessa storia con attori in carne ed ossa, così Soriano si trova ad affiancare l’investigatore Philip Marlowe, personaggio di fantasia creato e reso celebre da Chandler, in un’indagine alla ricerca di Laurel e Hardy. Soares immagina, invece, un’avventura di Sherlock Holmes, piuttosto improbabile per la penna di Conan Doyle, proponendoci il grande investigatore e la sua fidata spalla Watson in una situazione e in una veste assolutamente inedita. Holmes, che non ha mai amato allontanarsi troppo dalla rassicurante Backer Street, si ritrova proiettato in un Brasile ottocentesco, tra nobili e vicerè, all’inseguimento di un criminale che non riuscirà mai ad afferrare e che, alla fine, si materializzerà nel vecchio continente sotto le spoglie di Jack lo squartatore. Potenza della letteratura, che riesce ad immaginare non solo tutte le lingue, ma anche tutti i mondi possibili, svincolandosi dagli angusti limiti che il tempo e lo spazio impongono al nostro corpo. Così, Dante può raccontare il suo incredibile viaggio ultraterreno, come se l’avesse verosimilmente compiuto, Shakespeare le sue storie d’amore e di morte, trasfigurazioni preromantiche della vita di ogni giorno, Cervantes la storia di una pazzia, che può originare dal conflitto tra il sogno di una vita avventurosa e straordinaria e la realtà di ogni giorno, dura, monotona e, a volte, persino crudele. Quanto allo stile, il libro di Soriano potrebbe attribuirsi benissimo a Chandler, del quale l’argentino riesce a ricreare quell’atmosfera di amarezza e malinconia, che riecheggia nelle opere del celebre giallista. Quello di Soares potrebbe essere considerato una attenta e puntuale parodia delle opere di Conan Doyle, del quale ha saputo riproporre l’inarrestabile ottimismo che una ferrea logica positivista induce nei ragionamenti del celebre detective. In perfetta sintonia con Borges, l’opinione secondo la quale un libro, in qualche modo, parla sempre di altri libri, mai come in questo caso  trova particolare ed appropriato riscontro. Gli archetipi narrativi si possono contare sulle dita di una mano, ma le loro variazioni sono praticamente infinite. Questi autori e le loro opere sono la dimostrazione evidente di questa constatazione. Se credete che la realtà sia, a volte, troppo dura da affrontare, cercate rifugio, anche per poco tempo, tra le pagine di questi libri.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato , | Lascia un commento

LA RELIGIONE DELL’ESATTEZZA

I libri: “Il mestiere di scrivere” di Raymond Carver (Einaudi) – “Lezioni americane” di Italo Calvino (Mondatori)

In quest’epoca frenetica e appannata, nella quale ogni forma di comunicazione avviene all’insegna della sciatteria e dell’approssimazione, potrebbe sembrare fuori luogo qualsiasi discorso che affronti il tema dell’esattezza. Il bello scrivere non è semplicemente una forma residua di snobismo, un rifugio per individui con lo sguardo troppo rivolto al passato. Al contrario, si tratta di una forma di comunicazione alta, capace di reggere al trascorrere inesorabile del tempo e di comunicare, anche in epoche future, i sentimenti e le passioni che hanno guidato e sorretto la mano dell’autore. Chi vuole coltivare l’esattezza deve, sempre e comunque, pagare un prezzo molto alto in termini di tempo e di fatica, necessari non solo per concepire l’opera letteraria, ma anche per scriverla e, spesso, riscriverla, anche più volte. Scrivere non è per niente un’attività facile, di scarso impegno e, soprattutto, leggera, come pretendono quelli che poi hanno difficoltà anche a mettere sulla carta, o in rete, pensieri e riflessioni, fosse anche per scrivere un semplice biglietto di auguri. Presi singolarmente, i testi di cui si parla in questo post sembrerebbero avere ben poco in comune. Cos’è, allora, che lega due libri, apparentemente così distanti tra loro? In primo luogo, entrambi espongono più di una riflessione sul lavoro dello scrittore e sul fine ultimo a cui dovrebbe tendere il suo stile narrativo. In secondo luogo, sviluppano nelle loro pagine un concetto, quello dell’esattezza, che è stato la ragione d’essere della produzione letteraria di entrambi. Entrando nei dettagli, il volume di Raymond Carver si presenta come una raccolta di materiali vari, che vanno da prefazioni ad opere sue e di altri autori, a testi di conferenze, a registrazioni di lezioni sulla scrittura, tutti legati dal filo conduttore di una riflessione intorno all’arte dello scrivere. Carver tiene a sottolineare, in particolare, il fatto che ha sempre prediletto la forma narrativa del racconto breve e questo lo imputa alla sua stessa natura piuttosto pigra, che lo rende incapace di imbarcarsi in un’impresa lunga e complessa come quella di realizzare un romanzo. Aggiunge, però, che ha riscritto più volte gli stessi racconti, fino a dare loro una forma che fosse la più compiuta e soprattutto la più “esatta” possibile. Una forma narrativa dove ogni parola potesse occupare un posto nella frase dal quale fosse impossibile rimuoverla, senza compromettere irreparabilmente l’equilibrio del testo. Le celebri “Lezioni americane” sono, invece, il testo di alcune conferenze che Italo Calvino era stato incaricato di tenere presso l’università di Harvard, lezioni, purtroppo, rimaste sulla carta, a causa dell’improvvisa scomparsa dello scrittore. Quella sul concetto di “esattezza” è una delle cinque lezioni già completate dall’autore e pubblicate postume, quasi a chiosare le scelte stilistiche che traspaiono dalle sue opere. Lo sforzo dell’autore è tutto teso a definire quel concetto che rappresenta la stella polare di tutta la sua opera. “Cosa si intende per esattezza?”, si chiede lo scrittore. La definizione che ne fornisce è, come nelle sue abitudini, non semplicemente teorica ma anche operativa. Dice, infatti, Calvino: “… Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose: 1)  un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; […] 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. Se adottiamo questa definizione come metro di molte opere letterarie attuali, le giudicheremo del tutto inadeguate a rappresentare il concetto, persino nella sua formulazione minimale. Calvino e Carver sono i sacerdoti della “religione dell’esattezza”, alla quale si sono completamente votati, una religione i cui adepti sembrano, di giorno in giorno, ridursi di numero. Basta dare una rapida scorsa a qualche pagina di uno qualunque dei tanto osannati best sellers del momento. Quanta inesattezza, quanta sciatteria l’autore ha posto nel tradurre in parole e frasi il proprio pensiero! Se poi si entra nel merito della funzione educante della lettura, si capisce quanto possano essere amplificati gli effetti deleteri sulla gran parte dei lettori che, pigri e distratti per natura, finiscono per assuefarsi facilmente ai sapori grossolani di libri malfatti.  L’esattezza: grande virtù, che ben pochi autori hanno avuto ed hanno la forza e la volontà di coltivare. Leggere questi libri aiuta a capirne e ad apprezzarne profondamente il senso e la funzione.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato , | 6 commenti

UNA VOCE NEL CORO

“Olive comprese” di Andrea Vitali (Mondolibri)

Che Andrea Vitali rappresentasse qualcosa di più di una semplice meteora, nell’affollato cielo della narrativa italiana contemporanea, lo avevo intuito fin dalla lettura del suo breve romanzo “Il procuratore”. Con questa ulteriore prova d’autore, Vitali entra senz’altro a far parte di diritto del “coro” degli scrittori contemporanei italiani. Più che una promessa, è una conferma delle ottime qualità, che hanno decretato il successo di questo narratore di fatti semplici, con protagonisti di paese. E, leggendo le pagine di “Olive comprese”, se ne capiscono anche le ragioni. Innanzi tutto, la forma stilistica, fatta di brevi, ma al tempo stesso densi, capitoletti, al termine di ciascuno dei quali il discorso viene lasciato volutamente sospeso, in attesa di essere ripreso nel capitolo successivo. Poi la ricerca di una “esattezza” linguistica e narrativa, attraverso una scelta appropriata dei termini e di una struttura sintattica rapida ed efficace. Infine la scelta precisa di narrare e descrivere qualcosa di semplice ed abituale, direi quasi quotidiano, facilmente riconoscibile da parte del lettore: il paesaggio e l’ambiente, nel quale ciascuno di noi si immerge, sempre più distrattamente, giorno dopo giorno. Vitali dimostra che non è necessario costruire trame fantasiose, né collocarle in ambientazioni esotiche o in un passato ormai remoto, per parlare ai sentimenti della gente. In fondo, tutto il mondo è paese, e questa per lo scrittore è più di una semplice metafora. La sua scelta di ambientare le storie in un periodo lontano dall’attuale sembrerebbe quasi una scelta di convenienza. Parlare, infatti, di personaggi e storie passate lo mette al riparo dalle tante chiacchiere e pettegolezzi, che potrebbero scaturire dal racconto di avvenimenti recenti. In questi casi entra inevitabilmente in gioco il meccanismo dell’identificazione, la ricerca ed individuazione delle persone adombrate nei personaggi del racconto, spesso un vero e proprio gioco al massacro, che ben conosce chi vive o è vissuto in un piccolo centro di provincia. Un libro capace di trasmettere lo stesso piacere inalterato anche ad una successiva rilettura. Indicato per chi ama la scrittura densa e le atmosfere incantate.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | 1 commento

LO SCALONE

LO SCALONE. Quando penso al cosidetto “scalone”, introdotto nella riforma del sistema pensionistico dal precedente governo, presieduto dall’Innominabile, chissà perché, mi viene in mente la Corazzata Potemkin. Ho davanti agli occhi le immagini di questa scalinata infinita, che sembra condurre fino al paradiso e sulla quale c’è sempre appostato qualcuno che vuole impedirne l’ascesa. Su questo scalone potrebbero inciampare in molti, segnatamente gli sfortunati che hanno visto la luce nel 1951 e che, pertanto,  compiranno 57 anni nel 2008. Saranno proprio loro i primi a fare i conti con lo scalone. Non potendo compiere – perché l’anagrafe parla chiaro! –  i fatidici 57 anni entro il 31 dicembre 2007, non avranno diritto ad entrare nel paradiso delle pensioni fino al 2010. Quando si dice la sfortuna! Ben gli sta. Così, un’altra volta, imparano a nascere nell’anno giusto. Per il momento, sono tutti raccolti in fondo allo scalone, sperando che le armate che lo difendono lascino, prima o poi, il campo libero. Qualcuno è stanco per aver lavorato una vita intera, qualcun altro cerca di sostenersi, coltivando improbabili sogni di evasione in paradisi tropicali. Intanto attendono e guardano in su. Dalla sommità, ecco affacciarsi onorevoli che mostrano, irridendo nei confronti della folla, vistosi cartelli, recanti numeri corrispondenti all’importo del loro attuale stipendio e della futura pensione. Sulla folla assiepata, in attesa di chissà quale evento miracoloso, piovono fogli di carta recanti frasi, estrapolate direttamente dai programmi elettorali dei due schieramenti, che parlano di “trattamento pensionistico iniquo” e manifestano la volontà di porre fine a questo “vergognoso” stato di cose. Un vento impetuoso, che origina direttamente dalle bocche dei parlamentari, trascina qua e là questi fogli. Riesco ad afferrarne uno al volo. C’è scritta sopra un’unica frase, anzi, un’unica parola, che sbiadisce man mano che la leggo, fino a scomparire del tutto. “Arrangiatevi”! 

Pubblicato in Mondo quadro | Lascia un commento