"Di cosa parliamo quando parliamo d’amore" di Raymond Carver (Edizioni minimum fax)
Sarà capitato a molti di voi di avvertire la sgradevole sensazione di trovarsi di fronte ad una pagina bianca e non sapere cosa scriverci sopra. Bene, questo è più o meno quello che sta accadendo a me, da un po’ di tempo a questa parte.
La penna (pardon: la tastiera!) giace inerte sul tavolo, in attesa che le mani possano trasmetterle quello che la mente sta elaborando. Sembra sempre più difficile dare corpo alla moltitudine di pensieri che si rincorrono nella mia testa, forse perché sono troppi, forse perché quelli piacevoli, stimolati soprattutto dalla mia attività di lettore si sovrappongono e si scontrano con quelli un po’ meno piacevoli legati alla mia attività professionale.
Anche la lettura, del resto, vive una fase di stanca, si avanza nel libro lentamente, poche pagine per volta, come in una foresta intricata. Alla fine, pur di non farmi vincere dallo sconforto, ho deciso di dedicarmi, almeno per ora, alla lettura di racconti brevi, anzi brevissimi.
Per questo ho chiesto aiuto a Raymond Carver, uno tra i miei preferiti, e lui mi è venuto subito in soccorso con una raccolta dal titolo tanto invitante quanto enigmatico: "Di cosa parliamo quando parliamo d’amore". Al termine della lettura del primo racconto "Perché non balliamo?", mi sono addormentato.
Adesso crederete che Carver abbia esercitato su di me un effetto soporifero, ma intendo subito smentirvi. Quello che mi ha fatto entrare così rapidamente nel regno di Morfeo è stata piuttosto l’ora tarda, insieme alla stanchezza accumulata durante la giornata.
Poco prima del risveglio, ho avuto una specie di visione, una di quelle che desidererebbe avere un qualunque lettore appassionato. Ho sognato che davanti ai miei occhi c’era una pagina scritta in bei caratteri (probabilmente Arial…) in cui erano riportati in bell’ordine tutti i pensieri e le sensazioni che quella lettura mi aveva stimolato. Insomma, una perfetta recensione del racconto che, ovviamente, si è quasi completamente dissolta al mio risveglio, non fino al punto, però, da impedirmi di ricordare qualche dettaglio.
C’era qualcosa nel racconto che mi aveva colpito, una leggera sensazione di disagio, qualcosa che sul momento non ero riuscito ad identificare. Il sogno è stato abbastanza rivelatore da chiarirmelo.
Il fatto è che il racconto non ha una morale, non procede attraverso la classica struttura "Situazione di partenza – squilibrio della situazione – punto di svolta – epilogo/scioglimento". Non c’è niente di tutto ciò, solo una vicenda apparentemente normale che, nello stesso tempo, ha qualcosa di paradossale.
Un uomo osserva dalla finestra del soggiorno i propri mobili sistemati in bell’ordine nel giardino. Due ragazzi che desiderano arredare la propria casa cominciano a contrattare con lui la vendita di alcuni oggetti. L’uomo, mette un disco su un vecchio giradischi e chiede ai ragazzi di ballare.
Si procede attraverso una nuda descrizione di fatti, senza comprenderne il perché di nessun avvenimento, come se il lettore fosse improvvisamente proiettato sul luogo in cui si svolge la scena e chiamato ad assistere a ciò che accade senza sapere niente né di prima né di dopo quei fatti. La sensazione di straniamento che si avverte è molto forte, simile a quella di certi film di Kiarostami, in cui i protagonisti compiono azioni apparentemente immotivate e incomprensibili allo spettatore.
Ma, forse, l’avvertimento che Carver vuol dare al lettore è: non stare sempre a chiederti perché. Porsi troppo spesso quella domanda è il modo migliore per rovinarsi la vita. I protagonisti del racconto sembrano al contrario vivere un’esistenza serena, assecondando il proprio destino senza tentare di opporsi. Che sia forse questa la ricetta della felicità?
Se volete mettere alla prova la vostra capacità di cambiare punto di vista sulla vita e sul mondo, allora Carver è l’autore che fa per voi.