IN RIGA!

E dopo il meritato riposo, è giunto il momento di riprendere a parlare di libri, quelli letti nel corso di questa faticosa e brevissima estate. Al “Rompete le righe!”, lanciato ai miei pensieri un po’ di tempo fa, segue il necessario ordine di “Adunata!”, per richiamare all’appello le impressioni e le sensazioni provate nel corso delle letture e dar loro forma e corpo attraverso le parole. Il bilancio di questa estate? Positivo, direi, almeno per quanto riguarda le letture. I classici, quelli che si rinviano sempre a periodi in cui la disponibilità di tempo è più consistente, sono rimasti ad attendere tempi ancora migliori. In compenso, hanno trovato spazio nelle mie letture piccoli capolavori della letteratura contemporanea (in testa a tutti, “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery) e grandi Autori della letteratura mondiale – la maiuscola, in certi casi, è doverosa, se non altro per il rispetto che si deve a certi scrittori – Saramago in primis. Adesso non resta che dare ai miei pensieri un ultimo ordine: “In riga!”, perché il blog torni nuovamente ad animarsi di post e commenti. Sono qui…

Pubblicato in Intermezzo | 2 commenti

GIUNGLA D’ASFALTO

Se l’homo sapiens dà il meglio di sé nell’arte e nella scienza, il peggio di sé riesce a darlo alla guida. E’ quando impugna saldamente un volante, non importa se di una modesta utilitaria o di una potente vettura sportiva, che l’uomo sostanzia la troppo  abusata e retorica metafora della “Bestia Umana”. Intanto, inviterei le povere bestie a presentare un esposto alle competenti autorità, affinché si impedisca, in ogni forma di comunicazione possibile, di porre accanto al sostantivo “bestia” l’aggettivo “umana”, in quanto lesivo della dignità delle bestie. Ma, per tornare all’argomento di questo post, l’ennesimo che riguarda i comportamenti degli automobilisti, riferisco di seguito un episodio, neanche troppo “episodico” per la verità, accaduto circa una settimana fa al sottoscritto. Tornavo da un funerale, per una di quelle strade definite tecnicamente di viabilità secondaria ma che da anni sono diventate il regno dei TIR e del traffico intenso. La strada si snoda piacevolmente attraverso un paesaggio agricolo, una vallata sulla quale si affacciano piccoli centri appoggiati sui fianchi da alcune basse colline. In uno dei pochi tratti di rettilineo, scorgo da lontano una lunga fila di veicoli che procede in direzione opposta alla mia, in testa alla quale ci sono tre o quattro camion. Ad un tratto, da quella lunga coda, emerge un’auto che inizia a sorpassare tutti i mezzi che la precedono. La strada non è abbastanza larga perché tre mezzi procedano affiancati, dietro di me a breve distanza, ci sono poi diverse vetture che procedono nella mia stessa direzione. Per prima cosa, comincio a rallentare e mi porto quanto più possibile a destra, compatibilmente con i margini della carreggiata che precipita, attraverso una ripida scarpata, nelle campagne circostanti. Poi, immaginando che l’automobilista che mi sta venendo incontro possa non aver notato la presenza della mia auto, comincio a lampeggiare con i fari. L’operazione, che nelle mie intenzioni avrebbe dovuto far desistere l’incauto dal sorpasso, provoca invece un effetto imprevisto: l’altro autista comincia a sua volta a lampeggiare freneticamente chiedendo strada. L’auto è una di quelle vetture sportive costosissime per lo più in mano a maturi signori sempre in vena di dimostrare al mondo intero e alla dama al loro fianco che il tempo non ha minimamente scalfito i loro riflessi né tanto meno la loro virilità. Rallento ancora, per dare tempo all’altra vettura di completare il sorpasso, e proprio quando ci incrociamo, vedo che l’autista, il solito maturo, distinto e virilissimo signore, fa degli strani gesti al mio indirizzo, un chiaro invito a visitare quel paese, così affollato di gente al giorno d’oggi che non ne rimane libero nessun posto, neppure in piedi. Rifletto tra me che forse quel gesto avrei dovuto compierlo io, sarebbe stato un mio diritto, ancorché non sancito né dalla Costituzione repubblicana né dal codice della strada. Poi, però, considero che sarebbe stato tutto tempo sprecato, l’invito a quel signore di recarsi nel posto dove intendeva mandarmi lui gli deve essere stato rivolto talmente tante di quelle volte che, probabilmente, per riuscire ad evadere tutte quelle richieste, è costretto continuamente a fare la spola tra qui e lì con la sua potentissima vettura, senza potersi occupare troppo degli altri automibilisti in circolazione. Ecco svelato l’arcano! Quel gesto che credevo rivolto a me, era in realtà la spiegazione del motivo per cui stava correndo così tanto, persino a rischio della sua stessa vita, poveretto. Spero solo che sia arrivato in tempo, prima che quel paese chiudesse le frontiere per eccesso di visitatori. Mi spiacerebbe pensare che possa essere costretto a mettere di nuovo a repentaglio la propria incolumità per compiere un dovere tanto grande.

Pubblicato in Mondo quadro | Lascia un commento

Parole in corsa

Parole in corsa
Concorso letterario per scrittori inediti proposto da APM e promosso da ASSTRA (Associazione Trasporti)

Parole in corsa” Quarta edizione
SERGIO TARDETTI : CONSIGLI PER CHI VIAGGIA (PdF)

Parole in corsa” Quinta edizione
SERGIO TARDETTI : E’ FINITO LO ZUCCHERO (PdF)

Pubblicato in Concorso letterario | Contrassegnato | 1 commento

LAVORI IN CORSO

Mi scuso con i miei tre (o quattro?) lettori, se continuo da troppo tempo a deludere le loro aspettative. I miei post si stanno rarefacendo, non certo perché non leggo, ma perché il lavoro mi sta letteralmente fagocitando, soprattutto in questo periodo in cui al termine dell’anno scolastico segue, senza soluzione di continuità, l’Esame di Stato. Quest’anno ho voluto osservarlo dalla cabina di regia, dopo essere stato per oltre venticinque anni uno dei protagonisti (o degli antagonisti, a seconda del punto di vista, se quello di chi sta davanti o dietro la cattedra). Mentre affino le tecniche necessarie a dirigere il lavoro di una commissione d’esame, leggendo e meditando su pagine e pagine di normativa, colmo i rari momenti di riposo con la lettura di due interessanti e gradevoli volumi, della cui acquisizione sono debitore ai rispettivi autori. Grazie, quindi a Luca Carulli, per avermi inviato la sua opera prima “La Terra dei Sogni“, pubblicato da Verdechiaro Edizioni. Grazie anche a Gian Ruggero Manzoni per avermi fatto partecipe del suo ultimo lavoro “L’albero di Maehwa“, edito da Il Filo e presentato al recente Salone di Torino. Cercherò di essere meritevole del suo graditissimo attestato di stima. Ai due autori chiedo di pazientare ancora qualche giorno, sperando di riuscire prima o poi a disporre di un po’ di tempo, almeno quanto ne può bastare per raccontare le emozioni provate nel corso della lettura delle loro opere, con il rispetto che si deve sempre a chi si espone volontariamente alle critiche di un pubblico non sempre benevolo.

Pubblicato in Intermezzo | Contrassegnato , | Lascia un commento

SCRITTURE D’OGGI

“Senza padre e madre, né rimorsi” di Sergio Covelli (Edizioni Libreria Croce)

Non me ne voglia Sergio Covelli, se ho lasciato trascorrere tutto questo tempo, prima di esprimere un giudizio sulla sua opera. Se avessi dovuto esternare un’opinione a caldo, limitandomi alla lettura delle prime pagine e a qualche fugace sguardo al resto, avrei potuto dire semplicemente che il libro non mi piaceva. Richiesto di ulteriori chiarimenti, sarei anche stato in grado di motivare questa mia sbrigativa opinione: questo romanzo, avrei detto, non appartiene al mio Universo Letterario. Magari a Covelli sarebbe importato assai poco di questo giudizio sommario, ma a me sì, perché non sopporto l’idea di essere condizionato nelle mie scelte da limiti o pregiudizi, di qualunque genere.
Un Universo Letterario, per quanto vasto, è pur sempre limitato, quanto al pregiudizio, è costantemente in agguato, persino tra le pieghe della più innocente delle opinioni. Per questo, non appena avvertita questa fastidiosa sensazione di estraneità, mi sono, in un certo senso, imposto di arrivare fino all’ultima pagina, avendo contratto un debito morale verso l’autore e anche verso me stesso.
Confesso che quando mi sono trovato in mano il libro, ho subito pensato che avrei faticato molto a leggerlo, per via di quelle continue variazioni di caratteri tipografici che avevo colto sfogliando le pagine. Trovo insopportabile l’uso delle parole tutte a caratteri maiuscoli, persino in situazioni di comunicazione informale come le chat, denota mancanza di rispetto per l’altro (il destinatario della comunicazione) e un neppure troppo velato tentativo di prevaricare, di imporre la propria opinione su quella di tutti gli altri partecipanti alla conversazione virtuale. Non sopporto, in definitiva la gente che urla.
L’uso che Covelli fa di queste maiuscole non è, tuttavia, da considerarsi l’espressione di una volontà di sopraffare il lettore quanto piuttosto una necessità legata all’alto tasso emotivo delle situazioni narrate e – aggiungerei – vissute dall’autore. Perché di questo sono assolutamente convinto. Il libro può essere considerato a tutti gli effetti un romanzo di formazione, come ne annovera tanti la letteratura dell’Ottocento, specie quella romantica. Covelli, però, di quel genere di romanzo astrae la struttura portante, il confronto e, più di frequente, lo scontro con la rudezza della vita che aiuta a crescere, conservando, a modo suo, il finale teso e disperato di chi spesso da quella lotta esce sconfitto e sopraffatto.
Quanto allo stile di lettura adottato, ho rinunciato quasi subito alla classica lettura “lenta”, che porta a trattenere in bocca la singola frase o la singola parola per meglio assaporarla. Ho avvertito, infatti, un procedere del periodo a strattoni, un avanzare su un terreno sconnesso, che si apriva in improvvisi avvallamenti o si sollevava in creste acuminate, una miscela di sapori stonati. Il passaggio alla lettura “veloce” ha permesso, invece, di gustare a pieno la drammaticità della scrittura, mi sono lasciato avvolgere dal flusso delle parole, riuscendo in questo modo a cogliere il senso complessivo del periodo, nello stesso modo in cui nella pittura divisionista si tende a distogliere la vista dal singolo puntino per poter apprezzare meglio l’immagine nel suo complesso.
Pur con tutte le sue contraddizioni, con una scrittura che parla più allo stomaco che al cervello, è in ogni modo un libro nei confronti del quale non si avverte indifferenza, un libro che costringe a prendere una posizione, anche a quei lettori che, come me, prediligono i classici e la scrittura “esatta” e controllata. Avrei potuto approfittare di qualcuno dei diritti del lettore, elencati nel celebre decalogo di Pennac, ma avevo un conto aperto con me stesso, un impegno è sempre un impegno, che diavolo!
Ammetto, però, di continuare a preferire tutt’altro genere di letteratura, alla scrittura “byte-stream” della tastiera di un computer antepongo quella più lenta e sorvegliata della vecchia stilografica, una scelta che, tuttavia, continuo a vivere a malicuore, da tecnico, impregnato della cultura della società digitale quale sono, che auspica e si impegna, però, per l’avvento di un nuovo Umanesimo, in cui l’antica dicotomia tra le due culture possa dissolversi fino a scomparire. 
Conservo ancora la sana abitudine di scegliermi i libri da leggere e confesso che un libro così non sarebbe mai rientrato tra le mie scelte. Adesso, a lettura ultimata, so che avrei sbagliato, non si deve mai giudicare un libro dal titolo, né dalle prime pagine, né da quei caratteri tipografici così asimmetrici da irritarmi. Un libro è pur sempre un libro e un autore è pur sempre un autore, a lui si deve rispetto, non fosse altro perché ha avuto il coraggio di proporsi al pubblico, cercando di farsi apprezzare ma al tempo stesso rischiando di infastidire e, peggio ancora, di annoiare.
Le pagine devono essere sgorgate dalla penna (o più probabilmente, dal computer) di Covelli come sangue da ferite sempre aperte. C’è troppo di personale in quello che si legge per non avvertire la sofferenza di chi si racconta, se tutto quello che ha raccontato fosse inventato di sana pianta, Covelli dimostrerebbe di avere una fantasia inesauribile e una capacità narrativa di elevata qualità, oltre, naturalmente, un eccesso di realismo e di faccia tosta.
Che sia questo il futuro della letteratura? In questo caso, che fine farebbe il bello scrivere? Sono problematiche che meriterebbero di essere dibattute ed approfondite ben oltre queste brevi note, perciò mi limiterò solo ad enunciarle, anche se più di uno dei miei attenti lettori potrebbe trovare alcune parziali risposte tra le righe dei post del mio blog.  
A chi consigliare, infine, questo libro? A quei lettori “forti”, che ogni tanto hanno il coraggio di uscire dagli schemi, e a quanti si trovano a proprio agio con la scrittura affilata e abrasiva dei romanzieri d’oltre oceano. Sergio Covelli non ha niente da invidiare a parecchi di loro.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | Lascia un commento

L’ANIMA E LA CARNE

“Il morbo” di Gian Ruggero Manzoni (Edizioni Diabasis)

Fossi stato nei panni dell’autore, avrei esitato a lungo prima di varcare la soglia del Palazzo della Letteratura, presentandomi al portone d’ingresso con un cognome così ingombrante. L’imbarazzo, poi, sarebbe senza dubbio cresciuto se avessi espresso il proposito di confrontarmi sullo stesso piano con il mio più celebre omonimo, scrivendo, cioè, un romanzo storico, ambientato per di più nel corso di un’epidemia di peste. Qui, però, terminano le affinità e i confronti, perché Manzoni (Gian Ruggero) decide di dare una forma completamente diversa ad una storia che avrebbe potuto facilmente correre il rischio di scivolare nella parodia.
Intanto, l’ambientazione delle vicende allarga il proprio orizzonte ben oltre le sponde di un tranquillo lago subalpino, toccando addirittura quelle opposte di un vasto e tempestoso oceano. Da un micromondo, conosciuto e ripercorso fino alla noia, a un macromondo ignoto, che può destare stupore e meraviglia al principio ma che la ragione riesce comunque a ricondurre al denominatore comune ad altri luoghi conosciuti, quello che si potrebbe sintetizzare nella abusata e logora formula “Tutto il mondo è paese”. Buoni e cattivi, amici e nemici, avidi e generosi, spavaldi e timidi si incontrano in ogni angolo della terra, anche il più remoto. A volte il viaggio e l’avventura sono pretesti per sfuggire a se stessi, altre volte stimoli per ritrovarsi e ricongiungersi con l’altra metà della propria anima.
In questo caso il protagonista sembra fermamente intenzionato ad attraversare la propria esistenza nelle vesti fiammeggianti dell’angelo vendicatore, consapevole di combattere una lotta che non potrà concludersi se non con la propria disfatta fisica, non certamente con quella dell’ideale che propugna.
Spirito libero, rivoluzionario, ribelle, anticlericale come possono esserlo solo certi romagnoli e – aggiungerei io – anche certi miei concittadini che ho conosciuto e che continuano a tramandare di padre in figlio i misfatti delle “Stragi perugine” di un secolo e mezzo fa, il protagonista viene proposto al lettore attraverso una fisicità che rasenta il più duro stile iperrealista. Niente ellissi né metafore, a voler celare i terribili dettagli di un fisico minato dal morbo e giunto ormai alla soglia della sua completa disgregazione, niente allusioni da romanzo ottocentesco, ogni cosa è descritta e narrata per come è.
Tra Luigi Compagnoni, il protagonista, e fra Martin de Campinas, l’antagonista che alla fine si fa amico e persino complice, si inserisce la bella e poetica figura di Jolanda, la creola che con estrema dedizione accudisce il Compagnoni morente. E’ una figura dipinta talvolta a leggere sfumature, talvolta con tratti decisi, che richiama e ricollega particolari dell’uno e dell’altro dei due attori principali della narrazione.
Luigi Compagnoni è soltanto un uomo, non un eroe romantico, non un martire, non un profeta, e come tale ci viene proposto dall’autore, anche se si tratta senza alcun dubbio di un uomo oltre la norma. Lui che della Chiesa ha conosciuto solo l’implacabile braccio secolare, che ha procurato a lui e ai suoi compagni sofferenze inenarrabili, non rinuncia, tuttavia, pur morente, a mantenere aperto il confronto  e sgombra la mente da pregiudizi che gli impedirebbero di vedere l’uomo che si cela sotto il rozzo saio del monaco, consapevole che oltre l’abito, c’è sempre l’uomo, con i suoi vizi e le sue virtù. Allo stesso modo si propone anche il frate, attore di un duello verbale che si conclude solo con la morte del protagonista, un duello condotto sul filo di una dialettica dei fatti contrapposti a parole che di questi fatti risultano sempre una difficile ed ambigua rappresentazone.
Ben più pericoloso della peste è il morbo che corrode e consuma l’individuo, il morbo del pregiudizio, che scava incessantemente nella mente di ciascuno di noi fino a svuotarla di ogni capacità di discernere. La morte della ragione coincide inevitabilmente con la morte della libertà, nel momento in cui ciascuno di noi consegna ad altri il proprio spirito imbavagliato e drogato, la libertà muore. 
Un’ultima nota di merito va data alla lingua con cui sono state redatte le pagine del romanzo, una lingua ottocentesca che, anziché essere avvertita come un mero esercizio di stile, costituisce al contrario l’essenza stessa della storia, la materia che dà sostanza ai sogni dell’autore. 
È un vero peccato che un’artista eclettico e a tutto campo come Gian Ruggero Manzoni non si dedichi in maniera più sistematica alle lettere, nelle quali potrebbe senza dubbio figurare ben più degnamente di tanti “besselleri” che continuano a riempire gli scaffali delle librerie. In un Autore si cerca sempre ciò che, al termine della lettura, ci fa sentire migliori di quando abbiamo preso in mano la sua opera. In questa difficile e spesso impossibile impresa Gian Ruggero Manzoni è sicuramente riuscito.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | Lascia un commento

LA PORTA DELL’ANIMA

“Il castello bianco” di Orhan Pamuk (Mondolibri)

Entrare nell’anima di uno scrittore dall’ingresso di servizio è un’esperienza che vale la pena tentare, senza bussare al più comodo ed ampio portone del palazzo, aperto il quale si rivela ogni volta il capolavoro. Alcuni brevi e giovanili racconti di Pessoa, altri racconti brevi di Corrado Alvaro, “Cronaca di Pietroburgo”, piuttosto che “Delitto e castigo”, “La sonata a Kreutzer”, piuttosto che “Anna Karenina” o “Guerra e pace”, possono essere la porta, non sempre stretta, dalla quale si accede nell’officina dell’autore, che può essere colto mentre affina gli strumenti espressivi o ricerca il suo personale stile narrativo.
Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006 (permettetemi di aggiungere: meritatissimo!) può essere avvicinato attraverso le pagine di “Il mio nome è Rosso”, il suo romanzo più celebrato, ma anche, come è accaduto a me, passando da quelle non meno pregevoli di “Il castello bianco”, l’opera che lo ha rivelato al mondo della letteratura internazionale. Raccontare in poche battute la trama di un libro, narrato in prima persona, ricco di vicende ma anche di riflessioni, ambientato in una Istanbul durante l’epoca d’oro dell’Impero Ottomano, non è cosa semplice e lascio al lettore il piacere di scoprire le tormentate vicissitudini dei due protagonisti, schiavo e padrone all’inizio e poi, alla fine, entrambi uomini liberi di scegliersi un proprio destino, non così scontato come potrebbe apparire dalle prime battute del romanzo.
Scienza e magia, festini e battaglie, si confrontano e si contrappongono nel corso dell’intera narrazione, in cui i due uomini, talmente simili da arrivare a somigliarsi in tutto, si scambiano spesso i ruoli. La cultura – e, oserei dire: la civiltà – occidentale si confronta continuamente con quella orientale, senza che nessuna delle due risulti realmente prevalere.
La misteriosa metafora del “castello bianco”, dal quale prende il titolo il volume, affascina e ossessiona al tempo stesso, lasciando nel lettore e nei protagonisti il dubbio che, al di là della soglia delle esperienze e delle conoscenze di ciascuno, ci sia qualcos’altro, inesplorabile e invisibile, che rimane precluso nel corso dell’intera esistenza, nonostante gli sforzi fatti per rivelarne il mistero. 
Luogo nel quale non riusciremo mai a penetrare, per quanti sforzi di possano indirizzare all’impresa, il Castello Bianco è poco più che una visione, intravista in lontananza, luogo nel quale il desiderio di entrare si è spento contro le alte mura erette a difesa della propria intimità, dell’inconfessabile e inconfessato, dell’incomprensibile ed incompreso.
C’è poi un altro “castello bianco”, quel doppio del quale ciascuno di noi favoleggia, un altro noi stessi, che esiste da qualche parte del vasto mondo, non un semplice sosia ma un’esatta replica di ciascuno di noi, così uguale ma anche così diverso che, per quanto se ne possa forzare e torturare l’anima, non si riuscirà mai a strapparne i più intimi segreti. Il dubbio che ciò che crediamo di aver capito dell’altro non sia, in fondo, che apparenza e menzogna, perseguita il lettore e i protagonisti per tutto il romanzo. L’unica conclusione certa è che, nella vita come nel racconto, ciascuno mente all’altro,  mentendo al contempo a se stesso, attraverso una costante trasmutazione della realtà in finzione e della finzione in realtà.
Lo stile, assolutamente sconosciuto a chi, lettore “sedentario”, si accontenta di esplorare le vaste e comode pianure della letteratura di cassetta, senza mai tentare la via che conduce alle vette più impervie, è caratterizzato da frasi ricche ed articolate, espressione di pensieri complessi, di tormenti dell’anima, di quella tecnica narrativa raffinata che è riconducibile al jocyano “stream of consciousness” e, forse, non potrebbe essere altrimenti in un romanzo in cui il narrante e il narrato si intrecciano e si sovrappongo costantemente.
L’invito che rivolgo al mio lettore è di alzarsi dalla poltrona – metaforica, s’intende – nella quale consuma le sue passioni solitarie, assolutamente dignitose e rispettabili, e iniziare a scalare l’erta che conduce ai picchi più deserti ed inesplorati della Letteratura, quei luoghi di cui tutti favoleggiano ma che pochi hanno osato visitare. Simili esplorazioni richiedono allenamento e costano fatica, ma, una volta arrivati in cima, il panorama che si scopre è indescrivibile. Coraggio, lettore! Ecco la prima delle infinite vette da scalare che ti attende.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | Lascia un commento

DUE MAIGRET D’ANNATA

“Maigret e il caso Saint-Fiacre” / “ Maigret e il porto delle nebbie” di Georges Simenon
(Edizione Club su licenza Mondatori)

Nella matematica dell’immaginario collettivo dei lettori – e, aggiungerei anche, dei telespettatori italiani degli anni Sessanta – Simenon sta a Maigret come Maigret sta a Gino Cervi. Credo che sia stato proprio il nostro grande attore, noto al pubblico più giovane soprattutto per i film di don Camillo e Peppone, a dare meglio corpo al personaggio letterario più celebre ed amato tra quelli creati dalla fantasia dello scrittore belga.

E questo “dare corpo” non deve essere inteso come un semplice modo di dire, una metafora persino eccessivamente logora, anzi, l’immagine che il lettore si costruisce del personaggio Maigret, pagina dopo pagina, sembra trovare la sua sintesi estrema nella figura massiccia di Cervi.

Che il robusto fisico dell’attore sia tra quelli che più si attaglia al personaggio di Maigret viene confermato anche dal fatto che tutti coloro che hanno poi voluto cimentarsi nel ruolo, sembrerebbero quasi scelti più per una somiglianza fisica con Cervi che non piuttosto per la capacità di saper rendere le manie e i tic che connotano il celebre commissario del Quai des Orfèvres.

Il Maigret di Castellitto, forse perché troppo distante da uno stereotipo cresciuto e consolidato nel tempo, è forse quello che è risultato meno verosimile e meno in grado di sollecitare la fantasia dello spettatore.

Gino Cervi è il Maigret che traspare soprattutto dai racconti più maturi di Simenon, lento e compassato, buongustaio ed eccellente bevitore, colto da improvvisi mutismi e da altrettanto improvvise intuizioni, un poliziotto da noir piuttosto che da hard boiled, riflessivo e pacato ma fermo e implacabile nel dare la caccia all’omicida di turno. Venire a capo di un delitto per lui è come ricostruire un enorme puzzle con frammenti che ognuno degli indiziati cerca di tenergli accuratamente nascosti e che lui deve pazientemente cercare di scovare. Il Maigret dei due racconti di questo volume è un uomo ancora abbastanza giovane, con qualche residua traccia di impulsività, ancora in cerca dell’identità che finirà per definirsi romanzo dopo romanzo, ma la sua abilità nell’avventurarsi nei labirinti della psiche e nel ricreare nei minimi particolari il contesto sociale e culturale del delitto è già matura.

I due lunghi racconti, condensati in un unico volume, formano un menu gradevole di pietanze correttamente abbinate, che lasciano soddisfatto dell’esperienza appena compiuta anche il lettore dal palato più difficile.

Il caso ha voluto che, una volta terminata la lettura, avessi modo di vedere una riduzione televisiva del “caso Saint-Fiacre”, che devo ammettere di aver trovato piuttosto deludente e modesta, nonostante il personaggio fosse interpretato dal pur bravo e convincente Bruno Cremer.

Maigret è, infatti, un personaggio ricco di sfumature che, per necessità di semplificazione, ad uso di un pubblico televisivo pigro e distratto, viene, invece, presentato come una figura a tutto tondo. Scomparsi nella finzione televisiva i lunghi silenzi, ridotte a cenni essenziali le riflessioni introspettive, così diffuse e così tipiche dell’opera letteraria, resta un agire schematico e asettico, che non può certo competere con l’azione frenetica delle moderne fiction e che, alla fine, lascia tutti un po’ insoddisfatti.

I dialoghi, letteralmente infarciti nel testo narrativo di espressivi puntini di sospensione, vengono sostituiti nella fiction con toni secchi e raffinatezze verbali che male si addicono al personaggio, sospeso tra temporanee quanto improvvise afasie, lente ed accurate esplorazioni della scena del delitto e un procedere a spirale nella ricerca della verità, attraverso dialoghi con i vari personaggi, che rappresentano spesso un autentico capolavoro di indagine psicologica.

Maigret resta un personaggio assai difficile da rendere, come e più dell’atmosfera del mondo romanzesco nella quale è immerso, una figura dai contorni indefiniti ma non per questo meno possente, come un’immagine che sembra emergere lentamente dalle nebbie del Quai.

Una lettura essenziale e irrinunciabile per chi vuole conoscere il Maigret degli esordi e capire meglio il Maigret più maturo.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | Lascia un commento

LE PRETESE DI CERTA GENTE

LE PRETESE DI CERTA GENTE. Ore 16.30 di un tranquillo e noioso pomeriggio. Sto lavorando in casa al computer, un po’ per piacere, un po’ per dovere. Nel silenzio più assoluto dell’appartamento e della strada sottostante, squilla il telefono. Quando il telefono squilla a quest’ora insolita, almeno nelle abitudini della casa, c’è sempre da preoccuparsi. Aspetto un paio di squilli, pensando tra me: “Adesso smetterà”. E invece non smette, continua a squillare insistente, tanto che sono costretto ad alzarmi dalla poltroncina dello studio e ad andare fino al soggiorno per sollevare il ricevitore e dare un nome al seccatore e un motivo a questa insolita chiamata. Mentre mi affretto, perché penso che se insiste qualcosa di serio o di importante deve pur esserci, maledico la mia distrazione, perché, come sempre, ho dimenticato di possedere un cordless.  Che si compra a fare un cordless se poi lo si lascia sempre così fuori mano? Arrivo a sollevare il ricevitore che sembra quasi che il telefono stia per esalare l’ultimo squillo. “Dottor Rossi?”, chiede una voce ansiosa e sconosciuta dall’altra parte. “No, guardi, qui non è il dottor Rossi”. Dall’altra parte, preceduto da una pausa di silenzio, la voce anonima dice: “Come? Non è il dottor Rossi?”. Sembra un po’ alterato, forse si sta domandando perché al posto del dottor Rossi abbia risposto io, e magari pensa che in questo momento in casa del dottor Rossi ci sia uno sconosciuto, che starà facendo chissà cosa e chissà con quali intenzioni. Comincio a temere che possa chiamare i carabinieri per andare a vedere cosa sta accadendo a casa del dottor Rossi e perché fermino in tempo l’ignoto che ha risposto al posto dello stimato professionista, prima che metta in atto il suo piano criminoso. Sempre più sicuro che io abbia torto e lui ragione, incalza: “Senti, io ho fatto il numero del dottor Rossi, il…” e qui snocciola le cifre del numero che ha composto. E’ passato bruscamente dal lei al tu, con il quale sembra abituato a trattare i suoi pari non titolati, e certamente anche i suoi inferiori. “No, questo numero è diverso”, dico io. E qui, a mia volta, scandisco le cifre complete del mio numero telefonico. In effetti, una certa somiglianza ci può essere, ma solo nelle prime e nelle ultime cifre. L’uomo, dall’altra parte, non sembra però molto convinto, anche se è costretto ad ammettere, finalmente, che esiste un motivo per cui io non sono il dottor Rossi. Adesso starà pensando dentro di sé al motivo per cui il numero del dottor Rossi è andato a finire sul mio telefono. Altra pausa di riflessione, poi, alla fine dice: “Va be’…” e riattacca. L’ho sentito così scoraggiato che avrei quasi voluto gridare, mentre la cornetta si appoggiava sull’apparecchio: “No, guardi, è tutto uno scherzo, sono io il dottor Rossi…”. Ma forse l’illusione sarebbe stata, alla fine, ancora piu amara della delusione.

Pubblicato in Mondo quadro | Lascia un commento

VITE IN VIAGGIO

“Palla di Sego e altri racconti” di Guy de Maupassant (Acquarelli)

I miti, soprattutto quelli più comuni e diffusi, sono sempre duri a morire. Per me, cinefilo impenitente, oltre che appassionato lettore, uno tra i più resistenti è quello di “Ombre rosse” di Ford, protagonista un giovanissimo John Wayne, non ancora assurto a simbolo della retorica conservatrice.
La trama di questo film è tratta – molto liberamente, per la verità – dal racconto di Maupassant “Palla di Sego”; è stato anche questo il motivo che mi ha spinto a prendere in mano il gradevole -anche esteticamente – libretto, che contiene tre racconti di Maupassant, tra i quali, appunto, quello in oggetto. L’ho letto quasi d’un fiato, tale è l’agilità narrativa e la limpidezza della prosa, dalla quale non riesci a staccarti che a fatica. Neppure il sonno incombente, giustificato dall’ora tarda alla quale, di solito, hanno inizio le mie letture, ha potuto avere la meglio sulla fascinazione del racconto.
La novella, una piccola vicenda umana calata nel contesto della Grande Storia, racconta una storia lineare e semplice. Un campionario di varia umanità si ritrova a bordo di una diligenza che dovrebbe portarli oltre le linee del fronte della guerra franco-prussiana (anno 1870), verso la salvezza e la tranquillità per alcuni, verso buoni affari per altri. Una donna di dubbia reputazione, ma di buon cuore, posta in mezzo a questo branco di lupi, viene spogliata della sua umanità, e costretta a diventare merce di un indegno baratto, per garantire agli altri il quieto vivere ed il proseguimento del viaggio.
Questa potrebbe essere, in sintesi, la trama del racconto, se non fosse che così facendo finiremmo per dimenticarci di tanti piccoli dettagli che, messi insieme, costituiscono il grande affresco di una società senza tempo e senza luogo, quella in cui il debole e il generoso devono sempre soccombere di fronte alla protervia e alla volontà di sopraffazione, che sembrano i caratteri distintivi delle classi dominanti di ogni epoca e di ogni paese.
Nel finale, al pianto sommesso di Boule de Suif fa da contrappunto il fischiettare insistente di uno dei viaggiatori che, con le note della “Marsigliese”, ricorda agli altri, arricchiti dai numerosi loschi affari fatti nel corso del Secondo Impero, che il cambiamento che temono è vicino.
Ricordando la scena finale di “Ombre rosse” e accostandola a quella di "Boule de suif", non può sfuggire lo stridente contrasto tra due mondi e due culture, l’Europa di fine Ottocento e l’America del New Deal.  Il lieto fine diventa una necessità per la società americana che sta tentando di risollevarsi dalla Grande Depressione. Per Maupassant,osservatore attento e disincantato della società del suo tempo, è invece qualcosa da rifuggire, una nota falsa e stonata che potrebbe incrinare la perfetta musicalità dell’intero racconto.
L’inizio del percorso letterario di Maupassant è folgorante, lo stile è sicuro, senza incertezze, la capacità di indagare nell’animo umano già matura. L’equilibrio del testo letterario è perfetto, tutto giocato su un’accurata scelta lessicale e sintattica che bandisce i fronzoli e la retorica.
Partito sotto le insegne del naturalismo, dopo un intenso percorso letterario, Maupassant approda sulle sponde del soprannaturale e del fantastico degli ultimi racconti.
La parabola che congiunge la tangibile umanità di Boule de Suif alla misteriosa Horla, entità di un mondo parallelo, sembra la stessa che ha seguito l’esistenza dello scrittore, dalla vitalità della giovinezza fino al decadimento psichico finale, come se la sua mente rifuggisse da quella realtà che all’inizio lo aveva così affascinato e turbato, fino a rifugiarsi in un universo meno doloroso ma certamente più terribile.
In questa fase, Maupassant appare una specie di precursore di Lovecraft, un altro scrittore che spalanca le porte di un mondo che vive e si agita nelle insondabili profondità delle nostre menti, un mondo dal quale siamo respinti ed attratti al tempo stesso.
Da non perdere per chi ama la bella scrittura, da conoscere assolutamente per chi trova nella letteratura una delle ragioni del dovere di esistere.

Pubblicato in Letture | Contrassegnato | Lascia un commento