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APPARIZIONI E FREQUENTAZIONI
Torno ogni tanto, come i criminali più incalliti dei gialli di quarta serie, sul luogo del delitto, questo mio blog al quale di recente ho dedicato solo qualche sporadica occhiata, tanto per non perderci di vista. Cosa ho fatto nel frattempo? Sicuramente ho letto, ma più che altro ho vissuto, esperienza necessaria ma spesso non altrettanto avvincente quanto quella della lettura. Troppa gente ordinaria si aggira nei percorsi quotidiani che l’esistenza ci porta a compiere, per soddisfare soprattutto il nostro bisogno di socializzare e di rendersi utili attraverso quella merce di scambio chiamata lavoro. Sempre più rara diventa la mia frequentazione delle vite straordinarie che si dipanano nei romanzi e attraverso le pagine traboccanti di vita di autori che attendono ansiosamente di essere ascoltati. Di recente ne ho conosciuti così tanti che avrei difficoltà a decidere di quale parlare per primo. Le frequentazioni che mi hanno arricchito premono per rivelarsi al ristretto e ricercato pubblico dei miei quindici amici. Credo che sia giunto il momento di rendere loro giustizia. A presto, dunque, rimaniamo in contatto!
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La mer de l’Italie
La mer de l’Italie
2 aprile 2010 di Sergio Tardetti
È stato durante uno dei miei viaggi vacanza in Francia che ho scoperto come da quelle parti l’Italia fosse conosciuta soprattutto per la mer. … …
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www.agliincrocideiventi.it
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JEAN-JACQUES, FRANK E… ME!
“Che paese, l’America” di Frank McCourt (Adelphi)
Ci voleva Frank McCourt per riconciliarmi con il mio blog e farmi tornare a scrivere di un libro. Mi aveva già affascinato con “Le ceneri di Angela”, per via di quello stile immediato che arriva prima allo stomaco, poi al cuore e, infine, dopo lunga ed attenta digestione, al cervello. L’immediatezza è quasi sempre – o sempre! – frutto di spontaneità e di sincerità, come deve essere per un libro a metà tra autobiografia e confessione. Le sue pagine sono senz’altro degne di apparire accanto ad altre ben più onorate ed illustri nella letteratura di tutti i tempi e di tutti i luoghi, pagine che possono essere tratte ugualmente dalle “Confessioni” di Agostino o da quelle di Jean-Jacques Rousseau.
Per avere conferma di queste mie impressioni epidermiche, ho provato ad aprire una pagina a caso dell’opera di Rousseau e vi ho ritrovato le stesse sensazioni, freschezza, immediatezza e spontaneità, rimaste intatte anche a distanza di secoli. Le vicissitudini personali e familiari di McCourt vengono raccontate con gli stessi toni con cui Rousseau descrive le sue avventure di gioventù, quando il caso e una buona dose di faccia tosta lo fanno entrare al servizio di nobili e prelati come precettore e segretario.
Il fatto che Rousseau, McCourt e il sottoscritto (si parva licet!) abbiano dedicato e stiano tuttora dedicando (solo il sottoscritto, per ovvi motivi anagrafici!) la loro esistenza al difficile mondo dell’educazione, contribuisce senz’altro a farmeli sentire più vicini. E’ impossibile non identificarsi in certe situazioni descritte nelle pagine di McCourt, ad esempio il primo approccio con una scolaresca, in qualità di docente, così simile per certi versi al mio primo giorno da insegnante in un Istituto Professionale. Al preside, che invoca il rispetto delle procedure e che ricorda delle sue lontane e limitate esperienze didattiche quanto lo smemorato di Collegno doveva ricordare della sua esistenza precedente, non si può che opporre l’arma della fantasia, del coraggio e, soprattutto, dell’altruismo, di quel rapporto empatico che si instaura in un’aula scolastica con qualcuno che si avverte al tempo stesso così estraneo e così simile a noi.
C’è poi un altro aspetto delle pagine di McCourt, e, in qualche modo anche di Rousseau, che mi affascina e me li fa sentire così vicini: la storia travagliata di un’infanzia difficile. A conti fatti, dei tre, io mi considero il più fortunato, perché ho sempre potuto contare sulla presenza rassicurante di entrambi i genitori, cosa che non è accaduta né per Frank né per Jean-Jacques. Per il resto, difficoltà economiche e problemi di salute sono stati parte non secondaria del nostro vissuto quotidiano.
Infine, la passione per i libri e per la lettura, una passione soddisfatta anche se mai appagata abbastanza, grazie alle biblioteche ambulanti e a qualche scartafaccio abbandonato incautamente nella spazzatura da gente dallo stomaco troppo pieno per poter pensare di riempire anche cuore e cervello. Questi sono i ricordi che ci legano e che, ne sono convinto, ci hanno spinto e ci spingono a riflettere sui problemi dell’educazione, alla cui soluzione abbiamo cercato di dare il nostro piccolo contributo, ricorrendo non solo al cervello, organo nobile per eccellenza, ma anche ad organi meno nobili quali stomaco e cuore. Ogni volta che lasciamo l’aula scolastica, ci auguriamo che i nostri tentativi, per quanto limitati, goffi o maldestri, non siano stati inutili e che qualcuno tra i nostri allievi possa raccogliere un giorno il testimone di questa ideale staffetta.
Consiglio la lettura di questo libro a tutti quelli che credono nell’importanza e nella necessità di dare e ricevere un’educazione nella vita. A tutti un saluto e un arrivederci tra quelle pagine…
ECCOMI DI NUOVO…
Scopro, aprendo questo mio blog, a distanza di così tanto tempo, che non lo trovo affatto invecchiato, né impolverato, come se nel frattempo qualche visitatore animato da spirito di solidarietà nei confronti di chi, come me, pratica la difficile arte del Leggere, avesse deciso di prendersene cura.
A questo visitatore sconosciuto vanno tutti i miei sentiti ringraziamenti; è per ricambiare la sua generosa e disinteressata solidarietà che ho deciso di rimettermi all’opera. Non ho certo dismesso, durante questa fin troppo lunga pausa di riflessione, i panni del lettore attento e ipercritico. Mi sono semplicemente limitato a leggere, e lo dico senza voler sminuire l’impegno che la Lettura comporta, ma, al tempo stesso, senza voler esaltare troppo un’arte che ogni essere umano razionale e sensibile dovrebbe cercare di padroneggiare a qualunque costo.
Ci si limita, purtroppo, il più delle volte, a compitare, a tradurre in suoni spesso disarticolati i segni grafici che sono stati impressi sulla carta o rimbalzano nei nostri occhi attraverso il monitor di un computer. Leggere è molto di più, è, tra tante altre cose, ridestare i caratteri addormentati sulla pagina e farli parlare, di se stessi e di chi li ha pensati e scritti. E’ questo il senso che attribuisco alla parola Lettura. Spero che il mio sconosciuto visitatore comprenda e condivida…
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LA SOGLIA
“Il piacere di leggere” si avvia a varcare la soglia delle 15000 visite, poche se raffrontate a quelle di altri blog ben più affollati, molte se si tiene conto dell’argomento che affronta e degli improvvisi “cali di tensione” del suo curatore, che lascia trascorrere troppo tempo tra un post e l’altro. Se leggere è un piacere, scrivere è, piuttosto, una fatica, soprattutto quando si cerca di evitare a tutti i costi di essere percepiti come banali, o superflui.
L’impegno assunto con i propri visitatori (a loro volta critici ed esegeti di queste pagine) non è dei più semplici, ma va senz’altro onorato. Il piacere che si ricava da una lettura va condiviso, altre righe e altre pagine vanno aggiunte a quelle già offerte allo sguardo di chi frequenta questo spazio. Solo così è possibile dare un senso alle emozioni che gli universi descritti nei libri sono in grado di suscitare in ciascuno di noi, solo così è possibile proporre punti di vista su testi e autori, per confrontarli con quelli di altri lettori, che possono condividerli o meno, alla continua ricerca del confronto prima ancora che del consenso. Nessun uomo è un’isola, persino quando legge.
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LA NORMA E L’OLTRE
“L’albero di Mahewa” di Gian Ruggero Manzoni (Il Filo)
Nelle frequentazioni quotidiane di ciascuno di noi, si viene a contatto con esistenze che si trascinano stancamente, tra lavori ordinari e decisamente poco avvincenti, piccoli e grandi problemi economici e familiari, avvolte in rapporti interpersonali costretti entro schemi irrigiditi dalle convenzioni sociali e narcotizzati dal quieto vivere. Si avverte, insomma, uno sgranarsi di giornate talmente uguali e prevedibili da non lasciare il benché minimo margine alla fantasia, per lasciare anche solo immaginare quello che accadrà il giorno dopo. E’ questa la norma, la vita dei cosiddetti “normali”, la gran parte di noi, con rari slanci, noiosa e prevedibile quanto si vuole, ma generalmente ordinata e, quello che più conta, tranquilla.
Ogni tanto, anche in questo mondo ovattato, giungono voci di altri generi di esistenze, gente che ha scelto di andare “oltre”, di valicare i limiti ristretti imposti dalla norma, di affidarsi ad un modo di agire considerato comportamento asociale, devianza, spesso stigmatizzato e messo al bando dalle regole del vivere civile. Accade quando qualcuno è colto dall’insano desiderio di capire, di andare a vedere cosa c’è al di là dei confini disegnati dalle regole di un gioco per lo più incomprensibile, il gioco della vita sociale, appunto.
E’ quello che accade ai personaggi di Manzoni, personaggi tragici per lo più, antieroi loro malgrado, coprotagonisti di una narrazione corale nella quale le storie di ogni singolo si incastrano perfettamente tra loro per disegnare il paesaggio di una tragedia di provincia, la tragedia di vite sommerse, per necessità o per impotenza, che ogni tanto provano il desiderio di venire a galla e respirare un po’ di voglia di esistere.
In una società in cui la forza del singolo sta nell’appartenere a qualcosa o a qualcuno, club del burraco o bocciofile, comitati di affari o di malaffare, cosche o caste, l’individuo ha vita particolarmente dura, i personaggi reali o da romanzo che siano, sono sempre senza via di scampo.
Il coraggio di andare “oltre” è il denominatore comune dei personaggi di Manzoni, tutti animati da una grande voglia di essere, di affermare, anche per un solo istante, la loro singolarità ed unicità, come bagliori di stelle lontane un istante prima di diventare buchi neri e svanire nella notte dell’eternità.
Per chi è abituato alla lettura accattivante dei best seller, romanzi precotti da cucina internazionale, scritti per solleticare i gusti facili del grande pubblico, non è agevole il confronto con la scrittura di Manzoni, una scrittura ruvida, che non fa sconti, proponendo al lettore brani in cui le parole sembrano essere state messe lì apposta per colpire con violenza più che per accarezzare, per ricordare che, accanto a quella in cui ciascuno vive, c’è una realtà parallela nella quale difficilmente riusciremo ad penetrare, una realtà con la quale capita di dover fare i conti ogni volta che diventa notizia, spesso cronaca, soprattutto nera.
Si avverte, scorrendo le pagine, tutta la simpatia che Manzoni prova per le sue creature, piccoli o grandi Nessuno, infiniti eteronimi dell’autore, le mille e più vite sognate o forse vissute in altre esistenze, capaci di riecheggiare nelle loro parole i pensieri più profondi e nascosti del loro creatore.
Il sentimento dell’opera oscilla tra la disperazione di un presente inaccettabile e la speranza di un futuro in cui la società corrotta e decadente di oggi ceda il posto a culture integre, capaci di prevalere su quelle ibride e sulle non culture del nostro tempo. Una speranza e un sogno a cui non vogliamo rinunciare e che non possiamo non condividere tutti.
PIACEVOLI COINCIDENZE
Ma tu guarda, a volte, come va il mondo! Parlo del libro di Luca Carulli e il giorno dopo me lo vedo in televisione, RAI 1 prima serata, tra le mani del simpatico architetto Renzo (Enzo De Caro), ex Smorfia, insieme ai favolosi Troisi e Arena, nonché marito per fiction della prof Veronica Pivetti. Non so quanti possano averlo notato, oltre a me e all’autore, sempre che fosse stato davanti al video a quell’ora. L’ho riconosciuto dalla copertina, mostrata anche in un’altra scena, successiva nel tempo del racconto ma, probabilmente, girata in concomitanza con la precedente, cosa che potrebbe giustificare la presenza del libro nelle mani dell’attore per ben due volte. Sarà stato senz’altro un caso, ma per Luca Carulli è un bel colpo di fortuna. Se il libro è arrivato fino a lì, e non è stato relegato a semplice accessorio di scena, deve aver riscosso senz’altro un buon successo. Cento di questi colpi, Luca!
IN CERCA DI SE’
“La terra dei sogni” di Luca Carulli (Verdechiaro Edizioni)
È prassi consolidata che lo scrittore esordiente cerchi di ricavare materia per il primo racconto, o il primo romanzo, dalle esperienze quotidiane che vive o ha vissuto in un passato più o meno remoto. Parlare di ciò che si conosce meglio, per averne fatto esperienza diretta, è quello che consiglia ogni buon manuale di scrittura ed è questa la strada più agevole da imboccare per inoltrarsi nell’affollatissimo mondo delle lettere, nel quale cercare, possibilmente, di ritagliarsi uno spazio autonomo e identificabile. Operazione, questa, in verità tutt’altro che facile, e si comprende bene la legittima soddisfazione che prova ogni scrittore quando riesce a raggiungere lo scopo.
Luca Carulli ha scelto di percorrere la strada del “racconto” di formazione, la brevità dello scritto non legittima la sua appartenenza alla categoria dei romanzi. Quanto le vicende narrate siano direttamente ispirate a fatti realmente accaduti all’autore, è dato saperlo essenzialmente a lui stesso, anche se è indubitabile che possa auto identificarsi col protagonista, un giovane lupo sognatore alla ricerca di sé. In effetti, solo dalla penna (o, più probabilmente, dal computer) di un sognatore poteva uscire una vicenda potenzialmente capace di emozionare altri sognatori di ogni età.
L’accostamento al Piccolo Principe di Saint-Exupery – si parva licet! – diventa quasi d’obbligo, tanto numerosi e frequenti sono i richiami che affiorano tra le righe, compreso un certo intento didascalico che non infastidisce. In mezzo a migliaia di pagine di letteratura che oscilla tra l’horror e lo splatter, certi passi del testo di Carulli appaiono quasi come il miraggio di un’oasi ristoratrice per lettori smarriti nell’arido deserto della letteratura fast-food. Il libro può essere facilmente gustato nella sua interezza in un pomeriggio di insistita lettura, ma risulta piacevole anche cogliere al volo o rileggere singole frasi o pagine scelte a caso.
Come ogni racconto per l’infanzia che si rispetti, il testo contiene frequenti iterazioni, ma il riaffiorare, qua e là, di frasi e brani già scorsi sotto gli occhi del lettore non genera un senso di fastidio, al contrario contribuisce a creare l’atmosfera da fiaba tipica di quelle narrazioni orali che non ci stancavamo mai di ascoltare da piccoli.
In chiusura, una modesta proposta sullo stile di scrittura, ineludibile per chi come me ama soprattutto l’esattezza geometrica della frase e del testo. La sensazione che si avverte, durante la lettura, è quella di parole e frasi sgorgate quasi di getto dalla mente dell’autore, una scrittura istintiva, immediata, che potrebbe vestirsi di abiti più ricchi e preziosi, se si trasformasse in scrittura razionale, riflessiva e meditata. Concedo che si tratta di un mio particolare punto di vista, un vero e proprio chiodo fisso, direi, e, forse, riflettendoci, un racconto come questo avrebbe molto da perdere dopo un’operazione di riscrittura che tenesse conto di queste mie ubbie. Una scelta più accurata di alcuni termini, non proprio di uso quotidiano, potrebbe comunque giovare alla scorrevolezza della lettura, e, soprattutto, consentirebbe di definire con maggior precisione il pubblico al quale il libro si rivolge.
Attendiamo Luca Carulli a nuove sortite nel mondo della letteratura, ormai il ghiaccio è rotto e si può anche salpare verso l’orizzonte, magari verso quella terra dei sogni che molti lettori trovano spesso tra le pagine dei buoni libri.
IN RIGA!
E dopo il meritato riposo, è giunto il momento di riprendere a parlare di libri, quelli letti nel corso di questa faticosa e brevissima estate. Al “Rompete le righe!”, lanciato ai miei pensieri un po’ di tempo fa, segue il necessario ordine di “Adunata!”, per richiamare all’appello le impressioni e le sensazioni provate nel corso delle letture e dar loro forma e corpo attraverso le parole. Il bilancio di questa estate? Positivo, direi, almeno per quanto riguarda le letture. I classici, quelli che si rinviano sempre a periodi in cui la disponibilità di tempo è più consistente, sono rimasti ad attendere tempi ancora migliori. In compenso, hanno trovato spazio nelle mie letture piccoli capolavori della letteratura contemporanea (in testa a tutti, “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery) e grandi Autori della letteratura mondiale – la maiuscola, in certi casi, è doverosa, se non altro per il rispetto che si deve a certi scrittori – Saramago in primis. Adesso non resta che dare ai miei pensieri un ultimo ordine: “In riga!”, perché il blog torni nuovamente ad animarsi di post e commenti. Sono qui…
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IL QUINTO QUARTO
“Lo Spirito e altri briganti” di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli (Mondolibri)
Quando ero poco più che un bambino, mi presero a lavorare presso una macelleria a pochi passi da casa. Era l’estate al termine delle scuole elementari, ad ottobre avrei iniziato le medie e così, un po’ per necessità, un po’ per passare il tempo, avevo cominciato la mia modesta carriera di garzone di bottega. Fu in quell’occasione che conobbi Memmo, antico e nobile membro della confraternita dei norcini, forte come un toro, capace di mettersi in spalla mezzo bue e trasportarlo dal camion del mattatoio, parcheggiato nel cortile antistante il negozio, alla cella frigorifera della macelleria. Fu sempre in quell’occasione che sentii parlare di quarti di bue, due anteriori e due posteriori, com’era naturale che fossero.
Ma fu la scoperta dell’esistenza del quinto quarto a sconvolgere le conoscenze elementari di aritmetica che possedevo e riuscivo già a padroneggiare adeguatamente . Inutile cercare di capire il concetto, l’esistenza del fantomatico quinto quarto era categoricamente esclusa dal mio pur ristretto universo matematico. Per quanto continuassi a rifletterci, qualsiasi oggetto diviso in quattro, ad esempio la classica torta, che tanto piaceva alla maestra, produceva quattro quarti, era ovvio, logico, anzi, matematico. Da dove prendeva origine questo quinto quarto? Mi ci volle un po’ di tempo per capire che con questo termine venivano indicate le frattaglie, la testa, le zampe, la coda e tutto quello che, pur facendo parte dell’animale, non era incluso negli altri quattro quarti. Il quinto quarto era la fortuna del macellaio, il suo guadagno vivo, quello su cui poter contare per soddisfare i clienti meno facoltosi e al tempo stesso incrementare con poca fatica i propri incassi.
Tutta questa storia mi è tornata in mente quando ho terminato di leggere il libro che Guccini e Macchiavelli hanno, per così dire, confezionato, ad uso e consumo di quanti avevano avuto modo, a suo tempo, di gustare le saporite e robuste storie narrate nella trilogia che vede come protagonista il maresciallo Santovito e come sfondo l’Appennino tosco-emiliano e i piccoli borghi che lo popolano. E, difatti, come per segnalare e sottolineare una continuità con le storie precedenti, gli autori ricorrono all’espediente narrativo di far precedere ogni capitolo da una specie di monologo del maresciallo, che funge da raccordo tra le storie e da introduzione a ciascuna di esse. Senza questo espediente, ogni storia sarebbe un racconto a sé stante, al quale mancherebbe quel valore aggiunto costituito proprio dalla presenza in funzione di testimonial del maresciallo stesso, presenza essenziale per trainare un libro altrimenti destinato a passare nel dimenticatoio.
Uno degli aspetti del libro, quello che sorprende piacevolmente, mentre si legge, è la sensazione di "leggerezza" della scrittura, dimostrazione tangibile del fatto che i due autori si sono divertiti molto a mettere insieme i fili di una narrazione capace di dare vita a storie così gradevoli da leggere. Immagino conversazioni notturne accanto ad un camino acceso, col fiasco del vino a portata di mano e le castagne che arrostiscono sul fuoco, i ciocchi della legna che scoppiettano e le parole di Guccini, alle quali fanno eco quelle di Macchiavelli, che rimbalzano sui muri e sul soffitto di un’antica cucina, annerita dal fumo.
Si ritrova in ogni pagina, praticamente intatta, la stessa atmosfera che si respira nella trilogia del maresciallo, una serie di abiti – mi si conceda la metafora – confezionati con stoffe di ottima qualità, anche se di colori e tessuti diversi. La leggera nota stonata del libro è invece dovuta alla sensazione che, pur mantenendo l’ottima fattura dei precedenti, l’ultimo nato sia stato confezionato con ritagli di stoffe rimasti inutilizzati nella bottega della premiata sartoria Guccini – Macchiavelli.
Dare del “quinto quarto” ad un’opera, per quanto minore, dei due bravi scrittori potrà sembrare forse riduttivo, se non addirittura irriverente, si tratta pur sempre di storie di un certo pregio. Per chi ha potuto apprezzare a fondo i libri che vedono protagonista il maresciallo Santovito, però, è esattamente questa l’impressione che si avverte. Le pagine che scorrono sotto gli occhi del lettore trasmettono la sensazione di essere poco più che frattaglie, rimasugli di brani espunti dai libri precedenti e confluiti in questo, forse perché si era venuta avvertendo la necessità di proporre ai lettori anche le parti meno “nobili” delle storie già narrate. Questo, naturalmente, a pensare bene, nella più favorevole delle ipotesi. Volendo, però, pensare male e, di conseguenza, fare peccato, si potrebbe intravedere in questo libro una banalissima e scontata operazione commerciale, a rimorchio del successo della trilogia di Santovito.
In conclusione, non so decidere se condannare o assolvere i due autori, per aver tentato di carpire la buona fede dei loro appassionati sostenitori. Anche se la tentazione di propendere per una condanna sarebbe forte, preferisco sospendere il giudizio. A loro va, in ogni caso, l’onore delle armi, per il merito di avere assolto un non facile compito, quello di essere riusciti a divertire il lettore, Anche se ogni tanto si lasciano affascinare dalle sirene del mercato, meritano tutta la nostra considerazione, se non altro per quello che hanno saputo darci, singolarmente o in sodalizio, durante questi anni.