IL NATALE RENDE PIÙ

È vicino, lo sento, sta per arrivare. Lo capisco da come le strade si fanno di giorno in giorno, di ora in ora, di minuto in minuto, sempre più intasate di gente, intrappolata dentro auto che vagano da un posto all’altro della città, alla disperata ricerca di un parcheggio. Una volta abbandonata la vettura in un luogo qualunque, purché vicino al negozio che si desidera visitare, s’inoltrano nelle strade deputate al rituale degli acquisti, attesi dal negoziante come il cacciatore attende i tordi da impallinare nel suo capanno di frasche.

Ecco che, come ogni anno, si affaccia incombente il Natale, con tutto il suo contorno di mitologie e liturgie. C’è un rito, o meglio una serie di riti, da celebrare: il cenone della Vigilia, e poi il pranzo di Natale, con i loro piatti tipici: capitone, torrone, panettone. Chissà perché le parole che si usano in queste occasioni finiscono tutte in “one”, forse perché tutto deve essere più grande, esagerato, fuori misura. C’è persino un po’ di compassione per gli altri in occasione del Natale, un po’ più di carità, ma solo perché, di fronte a tanto spreco, riusciamo ancora a vergognarci appena un po’ di noi stessi.

Anche i più pigri ed i più restii ad abbandonare il tepore del caminetto e l’abbraccio della poltrona, inevitabilmente avvertono dentro di sé lo spirito del Natale, uno spirito che li rende, all’improvviso, più.

Il Natale rende più buoni, dice l’anima candida che trova la bontà dappertutto, in un mondo dove per quasi tutto l’anno ognuno mostra all’altro i denti e il coltello. Sarà anche vero, ma qualche dubbio legittimo rimane, guardando i nostri simili che si accapigliano per l’ultimo panettone in offerta speciale, brandendo minacciosi ombrelli e borsette e alzando i pugni sopra la testa del contendente.

Il Natale rende più solidali, sostiene il volontario, e spera che questo pensiero si avveri, che questo spirito si diffonda tra la folla che si accalca davanti ai banconi della gastronomia, spendendo per i pranzi e le cene di due giorni cifre con le quali una famiglia del terzo mondo potrebbe vivere tranquillamente per un paio d’anni. Non la pensa così il disabile, che trova invariabilmente il posto a lui riservato nel parcheggio già occupato da mostruosi dinosauri, fuoristrada e SUV, dai quali scende invariabilmente la signora ingioiellata e impellicciata.

Il Natale rende più irascibili, dice l’automobilista alla ricerca di un posto dove lasciare l’auto prima di inoltrarsi nei recessi del centro commerciale, all’inseguimento di un regalo da poter scambiare con amici, parenti e conoscenti, sperando di non avere speso troppo per il cugino che non si vede mai tranne a Natale e che l’anno scorso, a fronte di un regalo da trenta euro si è presentato con un pacchettino del valore al massimo di cinque.

Il Natale rende più tristi, pensa la ragazza romantica, il cui fidanzato non tornerà per le feste, perché impegnato in missioni umanitarie. Intanto, però, continua a guardarsi intorno, sperando di incontrare, così, per caso, l’amico del fidanzato, che sicuramente sarà impegnato nella disumana missione di trascinarsi appresso le dozzine di pacchi, pacchetti e pacchettini della signora agée ma danarosa, alla quale sta prestando la sua opera di personal shopper.

Il Natale rende più str…ani, sostengo io, mentre il solito automobilista prepotente, incurante di tutte le norme, da quelle della circolazione stradale a quelle della buona educazione e del buon senso, mi taglia la strada, con il rischio di provocare un incidente, per parcheggiare proprio nel posto dove stavo per entrare.

Il Natale rende meno, si lamenta invece il bottegaio, fregandosi le mani per il freddo, costretto dalla crisi a risparmiare anche sul riscaldamento, e intanto ricorda i bei tempi andati, quando il Natale rendeva più, e allora tutti si fregavano le mani, ma per la soddisfazione di veder entrare nel cassetto banconote di grosso e medio taglio.

Così, come ogni anno, il Natale arriva, e non è né migliore né peggiore dei Natali passati, solo diverso, come diversi siamo noi che lo viviamo. Buon Natale!

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Visione

Dedicata alla città che mi ha accolto e alla quale appartengo

Da Piazza Grande scendevo una sera verso San Martino
Sotto un cielo carico di nuvole e di oscuri presentimenti
Un vento gelido e selvaggio sferzava le pietre dei palazzi
Con quella rabbia feroce che solo il vento riesce a provare
Contro le cose che non amano arrendersi alla sua inflessibile volontà

Qualche luce ancora accesa ai piani bassi rischiarava le pietre
Di bianco calcare, tratte a forza dalle viscere della terra
Rari passanti in lontananza scomparivano dietro angoli o porte
La notte che calava in fretta mi sorprese in strada solo
Mentre un’ansia smaniosa di rincasare mi assaliva improvvisa

Apparve a un tratto, sulle mura bianche del Palazzo del Bargello
Mi sorprese, non so come, l’impronta di un’antica bellezza
Invisibile all’occhio ma chiara e certa alla mia mente
L’immagine di una nobile grandezza, antica quanto l’uomo
Che pensa al mondo che sarà oltre se stesso e il suo tempo

Durò un istante ma il ricordo si infisse nella mente
Ed ancora adesso ogni volta ritorna ad agitare il mio pensiero
Quando nel cielo limpido una piccola nube appare all’orizzonte
E il vento soffia piano dal verde monte alla stretta pianura
Cullando le voci della storia sopra le torri e i tetti delle case

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Due Luglio

Il due Luglio 2013 io e Teresa avremmo dovuto festeggiare i nostri venticinque anni di vita insieme. Le vicissitudini familiari che stavamo attraversando ci impedirono qualsiasi forma di festeggiamento, ben altri erano i problemi a cui fare fronte.
Per l’occasione, avevo regalato a mia moglie questi pochi versi, che mi piace riproporre e condividere per il nostro ventiseiesimo anniversario. Grazie agli amici che avranno la bontà di leggerli, ma grazie soprattutto a Teresa che li ha saputi tirare fuori dal ripostiglio dei miei più nascosti segreti.

DUE LUGLIO

Mi chiese se volevo rispettarti
Amarti, perdonarti, preoccuparmi,
Per quanti anni ci fossero concessi

“Sì”, fu la mia risposta, troppo breve
E con quel tono un po’ di circostanza
Ma c’era il luogo e l’ora che incombeva

E quella folla in fibrillante attesa
Pronta a sciogliersi in lacrime e in abbracci
E a chiedere insistente un nostro bacio

Suggello di un’impresa troppo audace
Che prendeva l’abbrivio in quell’istante
Per arrestarsi al termine del Tempo

Avrei voluto dire altre parole
Oltre quel sì, ma forte l’emozione
Mi stringeva la gola e tratteneva

I pensieri già pronti a traboccare.
E poi quel luogo che non ci consente
Altre risposte o ammette altre domande

“Sì”, fu la tua risposta, lo ricordo
Come se fosse adesso, scandita
In mezzo al mormorio di quella gente

Ferma, decisa, un gesto di coraggio
Come ne occorre a volte nella vita
Per andare oltre l’uno ed oltre il due

Poi mi chiese di prendere l’anello
E mettertelo al dito, risplendeva
Sotto la luce di un fervente luglio

Fu in quell’istante che si fermò il tempo
A separare passato e presente
L’uno non era più, l’altro c’è ancora

E ogni giorno quel giorno si rinnova

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IL FASCINO DISCRETO DELL’IMMAGINARIO

“Il Cristo Cancellatore non è risorto” di Aldo Merce (La lumaca golosa Edizioni – Villanova di Bagnacavallo). Nella sterminata biblioteca di Babele di borgesiana memoria esiste senz’altro uno scaffale dedicato ai non-libri. Come i libri si nutrono di parole, così i non- libri si nutrono di silenzi, al più di intenzioni inespresse. È stato dal bianco abbacinante della pagina che sono emersi dapprima segni incerti, poi grafemi, fino a comporre frasi di senso apparentemente compiuto, quel senso che nella conversazione ininterrotta tra chi scrive e chi legge, spetta al lettore attribuire.
Finché si resta sul piano dell’associazione tra oggetti e nomi, la cultura e l’esperienza accumulate nel corso di una vita, pur vissuta con diversi gradi di intensità, hanno gioco facile. Leggiamo “cane” e subito pensiamo a un cane, leggiamo “mano” e immediatamente il pensiero va alla mano. Quando, però, il testo è altro dal testo, allora il pensiero non può che arrestarsi di fronte a quella barriera di silenzio. Il pensiero, d’altronde, ha la prerogativa di superare tutte le barriere, anche quelle opposte da una pagina vuota, perciò tenta di creare senso anche laddove non ne esiste alcuno, almeno all’apparenza. Il testo, allora, diventa immagine che, più che a decodifica o a lettura, va sottoposta a interpretazione, alla ricerca di sensazioni più che di sensi.
L’opera di Aldo Merce, che attiene alla categoria dei libri d’artista, richiama, attraverso un evidente gioco di rimandi, “Il Cristo Cancellatore” di Emilio Isgrò, e la sua teoria della cancellatura, rappresentando, oltre che una citazione, un esercizio di stile, per così dire, sul tema dell’intervento artistico sul testo.
A partire dall’originale, l’artista Isgrò interviene sulla pagina cancellando parole e frasi, fino a lasciare scoperti gruppi di simboli che, una volta letti, acquistano un significato completamente diverso. Al termine dell’operazione, la pagina si mostra piena di segni neri, parole eliminate per fare posto al silenzio. I rari fonemi superstiti invitano ad un’ulteriore riflessione sul senso del segno, della scrittura e dello scrivere in generale, che spinge a considerare se a volte il silenzio possa essere più comunicativo di qualunque parola. Il Cristo Cancellatore di Isgrò è colui che verrà per giudicare i vivi e i morti, a marcare con un segno nero le parole condannate all’eterno oblio, salvando le altre.
Dove la pagina è nera, non c’è nulla da salvare o condannare, non c’è nulla da giudicare. Inutile quindi ogni resurrezione. Il testo diventa in realtà un pre-testo, stabilendo un perfetto equilibrio tra ironia e nonsenso; nessun intervento, nemmeno quello divino potrà cancellare i segni invisibili, annegati nel nero della pagina, e lasciare salvi i redenti, significanti o meno.
Per Aldo Merce il Cristo Cancellatore non è risorto, la pagina si mostra desolatamente nera e vuota, al più attraversata da qualche accenno di grafema a cui è difficile, se non impossibile, attribuire un qualunque significato. Una pagina che provoca sconcerto e dolore per quello che avrebbe potuto essere e invece non è stata, una congerie di significanti a cui ciascun lettore ogni volta si impegna ad attribuire altrettanti significati. Il compito del lettore, però, si esaurisce in presenza della pagina nera; non pagina vuota, s’intende, ma piena e ricca di tutto quello che la fantasia umana riesce a concepire. In conclusione, un invito e un suggerimento: immaginare per credere.

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VIAGGIATORI O TURISTI?

Dicono albergatori, ristoratori e commercianti della mia città: “Mancano i turisti”. Replico io: “Non sono i turisti che mancano, sono i viaggiatori”. E non si tratta solamente di una sottile distinzione terminologica, quanto piuttosto di una sostanziale differenza di mentalità e di comportamenti.
Ho conosciuto turisti di varie nazionalità che vagavano in diverse parti del mondo. Ricordo, ad esempio, un gruppo giapponese incontrato durante un mio viaggio in Turchia. Visitavamo la stessa località archeologica, forse Troia o Mileto, non saprei dire.
Il caldo estivo era soffocante, così decidemmo una sosta all’ombra di un folto gruppo di eucalipti, sotto i quali si erano rifugiati anche i figli del Sol Levante, che male sopportavano quell’afa. Da una improvvisata conversazione, scaturita dalla reciproca curiosità di conoscere e di conoscersi, venimmo a sapere che erano “cristiani come noi”; la guida del gruppo, una signora di mezza età, sembrava tenerci molto a farlo sapere.
Il loro frenetico e vagante itinerario li avrebbe condotti prima a Istanbul, poi a Gerusalemme, quindi ad Atene e infine in Italia, da dove, dopo avere visitato le mete canoniche di Roma, Firenze e Venezia, si sarebbero diretti a Monaco di Baviera, per fare infine ritorno in patria. Un tour de force che indubbiamente avrebbe lasciato qualche segno nelle loro memorie, oltre a qualche migliaio di foto da mostrare ad amici, parenti e conoscenti, una volta arrivati a casa. Ma avrebbero mai capito veramente l’occidente così come veniva riassunto dalle loro brochure di agenzia?
Personalmente, anche solo frequentando per qualche tempo una singola località, provo sempre alla fine della visita una sensazione di inadeguatezza, convinto di non essere riuscito a capire il luogo dove ho soggiornato. Ogni città è infinita e lo sguardo che le dedichiamo è sempre troppo breve.
I nostri amici giapponesi, inoltre, viaggiavano con albergo al seguito, essendosi portati dietro bevande e cibi, nel timore di essere contaminati da quelli locali. A questo andava aggiunto il fatto che l’autobus su cui viaggiavano era dotato di cuccette, dalla curiosa forma a loculo, nelle quali i nostri turisti riposavano durante le ore notturne. Che bisogno c’era di alberghi, bed and breakfast, pensioni, ristoranti, osterie, aree di sosta e di tutto quello che serve per intercettare la gente di passaggio e rappresenta la fonte di guadagno di chi vive di turismo?
Il viaggiatore, invece, ha l’abitudine di muoversi individualmente o in piccolissimi gruppi e di andare proprio in cerca di un luogo, ristorante, pensione, camera d’albergo, preferibilmente al centro della città, in cui sostare per immergersi totalmente nell’atmosfera del posto. I turisti vanno e vengono, i viaggiatori restano e, a volte, ritornano.
Essere turista è molto spesso una necessità, legata al poco tempo o al poco denaro o al frenetico desiderio di vedere, o a tutte queste cose insieme. Essere viaggiatore è una delle categorie dell’esistenza. Si può conoscere il mondo frequentandolo da turisti o da viaggiatori, si può conoscere la vita allo stesso modo.
E’ l’eterna disfida tra chi vuole godere il viaggio e chi invece punta diretto alla meta, trascurando il paesaggio che attraversa e le persone che incontra. La vita, però, sempre prodiga di occasioni e possibilità, consente a chiunque di diventare viaggiatore, da turista che era: sta a ciascuno di noi saperle riconoscere e cogliere.

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UN GIORNO NELLA VITA DI UN INSEGNANTE

di Sergio Tardetti

Entro in casa, appoggio la borsa sopra una sedia, la apro e ne tiro fuori il pacco dei compiti. Gli do appena un’occhiata di disgusto e poi lo sbatto sul tavolo. Ecco un’altra giornata persa, e con lei un’altra settimana, forse un altro mese, che sommato ai tanti, troppi, già trascorsi, si avvicina a diventare anno. Dalle facce sconvolte dei miei allievi nel dopo compito ho intuito già cosa devo attendermi. La maggior parte è rimasta per una buona mezz’ora a fissare il soffitto e per l’altra a rincorrere un suggerimento qualunque, sotto qualsiasi forma si presentasse. Solo i più audaci hanno osato rivolgermi domande che nelle loro intenzioni volevano essere di chiarimento al testo e che, invece, pretendevano come riposte le soluzioni complete dei quesiti.
Ho appena finito di prendere il caffè del dopo pranzo, quando mi assale una specie di prurito, l’ansia e il desiderio insieme di vedere quello che delle tante parole spese in classe è arrivato alle orecchie dei miei distrattissimi studenti, cosa ne è rimasto e soprattutto, come hanno travisato i termini importanti, quelli che il libro, come ho spiegato, evidenzia in grassetto. “Grassetto” è una parola che conoscono. Sanno usare un programma di videoscrittura con una discreta abilità, lo hanno imparato a fare già dalle elementari e dalle medie, e capiscono benissimo quando dico di mettere in grassetto una parola o una frase. Ci sono però migliaia di parole che non conoscono, o che non sanno scrivere, o che conoscono per averle viste e lette almeno una volta, ma di cui ignorano completamente il significato. All’improvviso mi assale una pesante e dolorosa sensazione di inadeguatezza.
Lo stesso pensiero avrà sicuramente attraversato le menti dei miei avi contadini, quando, dopo tanta fatica per dissodare, arare, seminare e innaffiare un terreno, ne ricavavano alla fine un magro raccolto, neppure sufficiente a sfamarli per tutto l’anno. A me è toccato in sorte un destino meno gramo del loro, ma qualcosa deve essersi trasmesso nei geni, attraverso generazioni di contadini prima e di operai poi. La sensazione che avverto dopo avere faticato a dissodare – metaforicamente, s’intende – arare, seminare e innaffiare il poco fertile e talvolta arido terreno delle menti dei miei allievi è della stessa specie: una totale impotenza, come se dovessi lottare con le forze della natura scatenate tutte allo stesso tempo contro di me. Perché l’ignoranza è una forza della natura, anche se apparentemente potrebbe sembrare un difetto, una debolezza. Quando è bene indirizzata però, dissodata e resa fertile mediante la curiosità, allora è una vera forza per inseguire la conoscenza.
Mi consola e incoraggia il pensiero che, nonostante le avversità e le calamità naturali che si sono scatenate contro di loro, i miei avi non si sono mai arresi ed hanno continuato a fare il loro mestiere, lottando contro tutte le avversità. Adesso comprendo il significato profondo del termine “insegnare”: è un indicare la strada, additare la direzione da seguire, lasciando ad ognuno il proprio modo di percorrere quella strada.
“Per aspera ad astra”, mi sono lasciato sfuggire inavvertitamente, quando al termine del compito un allievo ha detto che gli era sembrato di avere fatto uno sforzo immenso. La classe mi ha guardato esterrefatta: per loro, studenti di un istituto tecnico, il latino potrebbe anche essere uno dei cinquecentomila dialetti di Marte. La loro cultura di base è lontana mille miglia da quella di un ragazzo di un liceo.
Quando chiedo, all’inizio dell’anno: “Sapete leggere? Sapete scrivere? Conoscete le quattro operazioni dell’aritmetica?”, loro pensano che io stia scherzando e generalmente sorridono mentre rispondono in coro: “Sììì!”. Oggi ho spiegato il sistema di valutazione che applicherò al compito: un massimo di trenta punti, suddivisi un po’ per domanda a seconda della complessità della risposta. “Ma i voti non arrivano fino al dieci?”, chiede una ragazza perplessa. “Certo, prima calcolerò quanti punti su trenta avete ottenuto e poi …”. Lascio volutamente in sospeso la frase, aspettandomi che qualcuno la completi, ma nessuno parla. Stanno tutti a guardarmi con la bocca aperta, qualcuno l’ha addirittura spalancata, come se fosse in attesa dell’oracolo. “Poi?”, insisto io. Un insegnante non deve mai darsi per vinto, penso. La risposta è ancora un silenzio di bocche spalancate. “Poi… dividerò per tre il risultato. Avete capito?”. Fanno cenno di sì con la testa ma non sembrano molto convinti. “Facciamo un esempio”, dico. Gli esempi sono il pane quotidiano di un insegnante, la forza dell’esempio sta nel fatto di essere semplice e fare riferimento a cose e situazioni ben conosciute da parte degli allievi. “Immaginiamo che uno di voi abbia totalizzato ventiquattro punti…”. “Chi, professore?”, chiede il ragazzo in fondo all’aula che ha sempre bisogno di oggettivare i concetti. “Nessuno in particolare, uno di voi, uno qualunque, anche uno di un’altra classe…”, rispondo. Senza attendere la domanda che segue di solito ogni mia affermazione, proseguo: “Se avete preso ventiquattro su trenta, a quanto equivale in decimi?”. Il ragazzo seduto al primo banco mi dice: “Aspetti un attimo…”, poi tira fuori la calcolatrice dalla borsa, comincia a picchiare freneticamente sui tasti, e alla fine annuncia: “Dovrebbe fare circa otto su dieci”. Circa? Cosa vuol dire circa? “Sì”, risponde lui.”Vede?”. E mi mostra sicuro il display della calcolatrice. “Qui c’è scritto otto virgola zero zero”. A questo punto mi sento cadere le braccia, non so più cosa ribattere, sovrastato dal pensiero di quanto lavoro ci sia ancora da fare soltanto per cominciare a seminare.
Comincio a sfogliare con cautela le pagine stropicciate e abbondantemente decorate con vistose cancellature e frecce, che pretendono di essere interpretate come rimandi ad altre parti del foglio dove si annida un frammento della risposta. “Coraggio”, mi dico, perché il coraggio un insegnante se lo deve dare, sempre. Comincio a scorrere la prima riga del primo compito ed ecco subito emergere una perla, una di quelle perle rare che solo i miei studenti sono capaci di confezionare: “all’ontanare”. Avrà forse voluto dire “allontanare”?
Senza l’apostrofo, senza l’apostrofo! L’ho ripetuto quasi all’infinito: se non siete sicuri delle parole, portate il vocabolario e consultatelo. So già che alla domanda: “Perché hai messo l’apostrofo qui? Non esiste!”, la risposta sarà: “Tanto quando si parla non si sente!”. Anche questo è vero, devo ammetterlo, ma dove è andato a finire tutto il tempo speso a far capire che ogni parola ha un modo corretto di essere scritta e centomila di scriverla sbagliata? Sono già stanco ed ho appena cominciato. Chiudo il foglio e lo rimetto insieme agli altri, li lascerò a decantare sulla mia scrivania, già ingombra di tanti altri testi destinati alla stessa operazione di stagionatura.
Meglio non pensarci adesso. Ci penserò domani; dopotutto, domani è un altro giorno.

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IL MESTIERE DI INSEGNARE

Nessuno mi ha insegnato ad insegnare, ho sempre dovuto sbagliare tutto da solo. Sbagliare è il prezzo che si paga per imparare qualunque cosa, a patto che si dedichi tempo a riflettere sugli errori commessi e si abbia l’umiltà di accettare di poterne commettere. Nessuno è mai abbastanza preparato per insegnare, al più per apprendere. Ad un insegnante che inizia il suo apprendistato capita, paradossalmente, quello che potrebbe capitare ad un tizio qualunque al quale, con l’unico vincolo di essere laureato in qualcosa, si metta in mano un bisturi, dicendogli: “Da questo momento, tu sei un chirurgo”.
Questo è, più o meno, quanto è capitato a me e a tanti altri, con la differenza che quel bisturi l’avrei dovuto usare per incidere le anime dei miei inconsapevoli pazienti, ignorando per di più la complessa anatomia dell’animo umano e rischiando di lasciarle invalide e mutilate per sempre. Un rischio impossibile da risarcire perché impossibile da rilevare e quantificare.
Quella che segue è la storia del mio inizio.
Entrato nell’arena una mattina di novembre, luminosa e tiepida per quanto lo consente la stagione, il primo impatto fu con una scala lunga e ripida che sembrava terminare in paradiso, anche se quello che mi attendeva in cima sarebbe stato l’inferno. Così, almeno, me lo avevano descritto i bene informati, quelli che molto prima di me si erano inoltrati, carichi di bagagli e di speranze, nell’insidioso sentiero dell’educare. Tutti avevano pensato di farsi scudo della propria cultura per sostenere gli assalti dei discenti, che non si limitavano solamente ad opporre una fiera resistenza a qualsiasi tentativo di acculturazione, ma replicavano duramente colpo su colpo.
Il mio cerbero si presentava sotto le spoglie di quello che oggi si definisce eufemisticamente “collaboratore scolastico” e che la mia pregressa esperienza di allievo dei diversi ordini e gradi di istruzione aveva catalogato sotto la voce “bidello”. “Venga avanti, professore!”, fu l’invitante messaggio che fece scendere dalla sommità di quei tornanti insidiosi.
Lo vedevo sporgersi dalla ringhiera che delimitava il ballatoio, lo sguardo fisso verso di me che avanzavo incerto, facendo oscillare leggermente la borsa che tenevo in mano, più che altro per darmi un contegno. Quella borsa praticamente vuota, salvo un paio di penne, una matita e un’agenda desolatamente priva di impegni, era il simbolo della mia inettitudine, il vuoto di una mente che si appresta alla battaglia. Tra poco avrei saputo chi ero, chi sarei stato dopo e, forse, cosa avrei fatto della mia vita dai contorni ancora troppo incerti.
Avevo sempre creduto che certe storie si leggessero in quei resoconti sulla scuola che tendono un po’ a romanzare e ad enfatizzare l’esperienza professionale di un docente, generalmente tranquilla e abitudinaria. Ricordavo, ad esempio, di avere letto in non so quale libro, forse un ricordo delle elementari, che un maestro aveva ricevuto il massimo apprezzamento dai suoi allievi quando aveva abbattuto un moscone con una fionda improvvisata, costruita con un elastico e una pallina di carta. Chissà quali prove sarebbero toccate a me! Chissà se poi sarei riuscito a superarle!
I miei ricordi di scuola si limitavano, a quel tempo, a quello che avevo visto, sentito o fatto stando dall’altra parte della cattedra. Storie di amicizie, di studi non proprio “matti e disperatissimi” e di episodi non sempre da rendere pubblici e da confinare possibilmente nel posto più recondito e buio della memoria.
Ma per tornare a me in quel momento, ricordo che dopo essermi fatto indicare dal bidello la strada per raggiungere la classe, previo inevitabile passaggio per la segreteria per “prendere servizio”, avevo cercato di raggiungere il luogo del mio apprendistato il più in fretta possibile. L’ora di lezione precedente era già terminata, come aveva informato il suono ringhioso della campanella, perciò mi ero affrettato, certo di essere ormai atteso.
Raggiunta la porta della classe, lasciata aperta dal docente che mi aveva preceduto, la prima cosa che mi colpì fu uno strano silenzio che proveniva, se mai un silenzio può provenire da qualche parte, dall’interno dell’aula. “Ecco”, pensai. “Sono in ritardo, e quelli se ne sono già andati”. Sì, ma andati dove? Sapevo, a memoria, che non ci si poteva allontanare da un’aula o addirittura dalla scuola, senza qualche autorizzazione. Dovevano esserci, per forza.
Difatti, fermo davanti alla porta, all’interno dell’aula, vedo un ragazzetto con in testa un banco. No, non un basco: proprio un banco, tenuto sollevato e appoggiato sulla testa! Dietro di lui, una catena umana di altri ragazzi nello stesso atteggiamento. Che fare? In una frazione di tempo avevo cercato di rivisitare tutta la mia conoscenza e tutta la mia esperienza di studente, dalle elementari all’università, per rintracciare, purtroppo senza successo, un episodio simile.
Dovevo ammettere che se avevano avuto intenzione di stupirmi, c’erano riusciti. E qui entrano in campo un paio delle tante doti di un insegnante: comunicativa e improvvisazione. Così, fermo all’altezza dello stipite della porta, intanto ero riuscito a bloccare la testa di quel corteo non autorizzato, poi avevo aperto una trattativa con quello che sembrava il leader di quel movimento dei banchi in testa.
“Dove andate?” e “Perché?”, furono, ricordo, le mie prime parole che rivolsi a uno studente. Domande semplici e legittime, alle quali nessuno si sarebbe mai rifiutato di rispondere. Dopo le repliche del capofila, aprii con lui una breve e veloce trattativa, il cui succo era: parliamone, magari seduti in aula. E così fu, i banchi vennero posati in terra e ognuno si rimise seduto al proprio posto. Avevo vinto la prima battaglia ma non avrei mai commesso l’errore di credere di avere vinto la guerra.
Una guerra psicologica, fatta di sguardi, sussurri e piccole provocazioni, come sarebbe capitato, anche in seguito, decine e decine di volte, a cui, però, non ho mai attribuito quel significato di lesa maestà che ho visto spesso fare infiammare altri colleghi. Così era cominciato il mio incerto cammino, fatto, un po’ come quello di tanti altri, di attese, di incertezze sul rinnovo del contratto annuale, di concorsi e di aspettative. Una strada molto spesso in salita, come avevano anticipato le fatidiche scale del mio primo giorno di insegnante, una strada che non mi sono mai pentito di avere percorso. Ma questa potrebbe essere un’altra storia.

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NOTE A MARGINE DE “LA GRANDE BELLEZZA”

Capita spesso, nel nostro sempre meno amato Paese, che qualche evento mondano o culturale, capace di colpire la fantasia dei miei connazionali, diventi opportunità per esercizi di critica particolarmente arditi. Tutti, addetti ai lavori o meno, si sentono in diritto o in obbligo, nella circostanza, di far conoscere la propria opinione sull’evento. Siamo, insomma, un paese di opinionisti, oltre che di commissari tecnici della Nazionale di calcio. Così è accaduto anche in occasione dell’uscita sugli schermi de “La grande bellezza”, anche se i critici occasionali si sono limitati per lo più ad ascrivere il film alle categorie standard del “Mi è piaciuto – Non mi è piaciuto”. E, fino a qui, niente di male, la critica, del resto, è libera, se non fosse per quel vezzo, non saprei dire se esclusivamente italico, di voler trasformare una semplice e comune opinione in una verità assoluta. Personalmente, non ho mai posseduto simili certezze, né, tanto meno, la pretesa di essere determinante per la comprensione di qualcosa. Ognuno comprende ciò che comprende, a modo proprio: il resto sono convenzioni comunicative. Non intendo, perciò, vivisezionare il film, quanto piuttosto provare ad entrare in sintonia con l’autore.
Credo che l’esperienza della Grande Bellezza sia comune a tutti gli esseri umani. C’è sempre almeno un istante della nostra vita a cui torna con maggiore insistenza il ricordo, un istante così pieno e perfetto da averci fatto vibrare di gioia e di inquietudine al tempo stesso. “Cosa mi sta succedendo?”, ci saremo chiesti di sicuro in quel momento, più o meno con queste parole. O meglio, ce lo ha chiesto quel noi stessi con cui, spesso inconsapevolmente, intratteniamo una conversazione. È quella voce che a volte vorremmo far tacere, soprattutto quando ci rimprovera per un atteggiamento di presunzione eccessivo, per un gesto di scortesia, per una risposta sgraziata a chi voleva semplicemente comunicare con noi.
Per rispondere alla domanda: “Che cos’è la Grande Bellezza”, proviamo a frugare nei ripostigli della memoria, alla ricerca di quegli istanti “perfetti” in cui è sembrato che il tempo fosse davvero sospeso. Personalmente, ne potrei citare decine, forse centinaia; del resto, il numero di istanti nella vita di ognuno è pressoché infinito. Invito, naturalmente, anche i miei cinque lettori a provare a fare altrettanto. Ecco i primi dieci che sono immediatamente riaffiorati:

  • Una sera di primavera, sul ponte Carlo, a Praga, mentre il sole tramonta;
  • Un pomeriggio di prima estate, su un prato verde in collina, a Bologna, con tutta la città ai miei piedi;
  • La visione dei quadri di El Greco a Toledo, con quei corpi allungati dei martiri, protesi verso il cielo;
  • Una notte di plenilunio, a Gubbio, con il cielo coperto di piccole nuvole in movimento, dai contorni disegnati dalla luce della luna;
  • Un pomeriggio di fine estate, con il sole quasi al tramonto, su una spiaggia greca (c’è una ragazza che gioca tra le onde);
  • Un tardo pomeriggio di inizio luglio, mentre davanti all’altare di San Crispolto a Bettona, pronuncio il mio sì con Teresa;
  • Tutti, ma proprio tutti, i momenti di un viaggio in Austria, sempre con Teresa, nell’estate del 1997;
  • L’istante di quel gennaio del 2007 in cui mi risveglio, dopo alcuni giorni di coma farmacologico, e mi sorprendo di essere ancora vivo;
  • Una notte d’estate, in visita all’Alhambra di Granada, mentre sfioro una colonna del portico e sento, sotto la mia, la mano che l’ha toccata secoli prima di me;
  • La prima volta che, aprendo un libro, scopro di saper leggere.

Incontrare la Grande Bellezza, l’archetipo di ogni nostra idea di bellezza, è un vero e proprio dono degli dei; ma tutti i doni degli dei hanno un prezzo – a proposito: avrei dovuto aggiungere all’elenco anche il mio incontro con la poesia e la prosa poetica di Pessoa. Il prezzo del dono è la tristezza, che ci avvolge dopo avere conosciuto la Grande Bellezza, in tutti gli istanti che trascorriamo nell’attesa che possa tornare. Il prezzo è anche il dolore di non riuscire a condividere quell’istante perfetto con qualcun altro, perché è destino di ognuno di noi essere soli nella bellezza e nel dolore.
E qui potrei anche chiudere, se non fosse per qualcosa che mi urge dentro, la sensazione che forse abbia voluto personalizzare un po’ troppo il “messaggio” del film. È quel me stesso che colloquia abitualmente con me che lo fa notare. Al che rispondo: è vero, forse ho personalizzato un po’ troppo. Ma non sarà, forse, perché l’uomo è misura di tutte le cose e il mondo che ci circonda è una nostra personale rappresentazione? – un’altra bellezza non aggiunta all’elenco: il mio primo incontro con Schopenhauer. E tante altre ne ho omesse! Ho rinunciato da tempo ad ogni pretesa di universalità e giudico folle volere esserlo.
E qui termino davvero, non posso andare oltre. Scusate: la Grande Bellezza mi commuove, sempre.

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FOTO DI COPPIA CON CAGNOLINO

Non me ne vorrà la giovane coppia di turisti con cagnolino, incontrata nella passeggiata mattutina, se li assumerò a paradigma dell’attuale frenetico esistere. Non hanno responsabilità né meriti per avere suscitato queste riflessioni, ogni responsabilità, o merito, che sia, è da attribuire alla semplice casualità.
Veniva questa giovane coppia da non so quale visita affrettata ad una qualche cittadina dei dintorni, alla quale stava per fare seguito un’altra assai simile alla cittadina nella quale mi trovavo. Il programma della giornata, piuttosto intenso a dire il vero, prevedeva, a quanto ci è stato possibile apprendere, un’ulteriore visita ad un’altra località poco distante e, in seguito, con un tragitto valutato in circa un’ora e mezzo d’auto, l’arrivo in una nuova località turistica, anche questa da visitare, almeno nelle intenzioni.
Qui si esauriscono le informazioni raccolte attraverso frammenti di conversazione, ma si può tranquillamente supporre – almeno fino a prova contraria – che l’elenco dei luoghi da visitare non si esaurisse a quelli nominati. Un comportamento ossessivo – compulsivo, causa ed effetto del vivere attuale? Può darsi, ma quello che mi ha dato da pensare è stato il riaffiorare alla memoria di episodi analoghi, risalenti a due decenni prima, quando la sindrome da visitatore ossessivo non era così comune nella società dell’epoca.
Località: castelli della Loira, turisti affannati che vagano da un antico maniero all’altro, nel tentativo di stabilire un improbabile primato di visite. Noi, viaggiatori amanti della lentezza, desiderosi di assaporare le atmosfere dei luoghi che raggiungiamo al termine di brevi trasferimenti, siamo all’ingresso di un nuovo edificio storico, da visitare con tutte le regole, guida in lingua originale compresa.
Scendono, dunque, da un’auto di un modello che non saprei definire, ma sicuramente non alla portata di tutte le borse, i quattro moschettieri, intesi più che altro come “cacciatori” di mosche, tipici insetti del posto unitamente alle zanzare. Uno dei quattro estrae dallo zaino una macchina fotografica e impone agli altri tre di mettersi in posa all’ingresso del castello, in posizione strategica, tale da rendere visibile la scritta che indica nome e località dell’antico maniero. Scattata rapidamente l’istantanea, il fotografo dilettante commenta: “E con questo fanno venticinque!”. Dire che rimaniamo esterrefatti è dire poco, per noi venticinque è il numero magico, l’obiettivo che ci siamo assegnati nell’arco di tre settimane di intense e minuziose visite. Per curiosità ci accostiamo al quartetto e chiediamo: “Da dove venite?”. Detto il nome di una cittadina nell’hinterland di una grande città del nord, ci confermano le venticinque “visite” già effettuate, nonché le altre tre che intendono effettuare nell’arco della giornata. Sempre per curiosità chiediamo da quanti giorni sono in Francia. “Quattro giorni, e abbiamo in tutto una settimana di vacanze”. Salutiamo i cacciatori di immagini, pronti per ripartire verso una nuova meta e un nuovo trofeo, e varchiamo sconsolati la soglia dello storico edificio, alla cui visione dedicheremo non meno di due ore.
Fossimo stati un po’ più profetici, avremmo dovuto intuire fino da allora la piega che stavano prendendo le cose nel nostro amato paese, quale involuzione stesse subendo la specie homo italicus e quali conseguenze questa involuzione avrebbe comportato. Col senno del poi, constatiamo che la superficialità, l’ignoranza, la volgarità dei modi sono frutto di quegli atteggiamenti che cominciavano a farsi largo proprio allora in quelli che all’epoca era nostri quasi coetanei. Che qualche anno di meno avrebbe fatto una tale differenza non saremmo mai stati in grado di immaginarlo. L’ossessione di possedere il mondo attraverso la sua immagine virtuale si è impadronita fin da quei tempi di molti di noi. Il risultato è stato un deteriorarsi dei rapporti umani, dovuto soprattutto all’incapacità di dominare il proprio tempo. Dall’introduzione dell’orologio in poi gli uomini sono stati sottomessi al tempo, all’implacabile scandire dei secondi, dei minuti e delle ore. Da strumento capace di conciliare le esigenze di ciascuno con quelle degli altri, stabilendo per convenzione che il tempo, come la Legge, fosse uguale per tutti, l’orologio è diventato il tiranno che impone pesanti tributi alle nostre vite. Come ogni oggetto, però, l’orologio non possiede un potere in sé, siamo noi che glielo abbiamo attribuito, consegnandoci interamente a lui senza opporre la minima resistenza, compresi quei momenti in cui sarebbe doveroso ignorarlo.
Ma, per tornare alla coppia da cui siamo partiti, e ripensandoci ora, forse avrei potuto dare loro qualche buon consiglio su come godere a pieno le proprie vacanze. Prima di tutto avrei suggerito di togliersi l’orologio e metterlo in una tasca profonda, dalla quale farlo uscire non più di un paio di volte al giorno, tanto per sincronizzarsi con gli orari dei ristoranti. Inoltre avrei potuto invitarli a sostare più a lungo nello stesso posto, per cercare di assorbirne quante più sensazioni possibili, perché sono le sensazioni raccolte e non le immagini memorizzate in una macchina fotografica che fanno la differenza tra un viaggiatore e un turista. L’unico inconsapevole e incolpevole in tutta questa vicenda è il cagnolino, soggetto agli umori e alla fretta dei suoi padroni, a cui potrebbe opporre soltanto l’impellenza delle sue necessità fisiologiche. Dei tre, mi è sembrato il più saggio, quello che sembrava avere capito tutto. Se avessi posseduto i rudimenti della lingua canina e avessi potuto interpellarlo sul significato della vita, mi avrebbe senz’altro risposto: “La vita è lasciare che la mano del Tempo accarezzi dolcemente la tua pelle”.

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Di nuovo a casa!

“Meglio tardi che mai”, direbbe qualcuno. Non saprei però dire chi possa essere questo qualcuno che ha avuto la pazienza di rimanere ad attendere che mi presentassi all’appuntamento con più di tre anni di ritardo. Se qualcuno/qualcuna tra i miei quindici lettori/lettrici è rimasto/rimasta ad aspettare tutto questo tempo, mi scuso, innanzi tutto, con lui/lei. Spero, per il futuro, di non lasciar passare così tanto tra un appuntamento e un altro; il mondo è pieno di cose che fanno riflettere e stimolano ciascuno di noi a far conoscere la propria opinione su quello che capita. Tengo moltissimo a questa parola, “opinione”, perché ho sempre pensato che solo di questo si possa trattare, quando esterno le mie riflessioni su questo o quello. Aggiungo, inoltre, che non sono soltanto i libri che stimolano le mie riflessioni, ma anche film, spettacoli d’arte varia e avvenimenti della vita quotidiana, insomma, tutto quanto fa cultura. Perciò, non stupitevi se troverete nei prossimi post anche riflessioni su questi temi. Ma, per non continuare a girarci intorno e perdere ancora tempo, mi metto subito all’opera. A dopo!

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