TERAPIA DEL DOLORE

NEVICA A LUSSEMBURGO – di Katia MERLI – Quaderni Edizioni

La poesia è il terreno preferito nel quale amano addentrarsi i lettori curiosi, il campo aperto ed esposto a tutti i venti in cui le loro quasi sempre fragili certezze si confrontano e a volte si scontrano con quelle degli autori. La poesia li attrae come i fiori attraggono le api, mentre respinge i lettori pigri, quelli che vorrebbero tutto scontato e tutto facile, e che hanno come unico desiderio quello di percorrere le pagine del libro in una specie di viaggio organizzato a partire dall’incipit. Vorrebbero, ad esempio, che titolo e contenuto non entrassero in conflitto fra loro, a volte anche contraddicendosi, e che quello che si mostra fin dalla copertina corrispondesse esattamente a quello che troveranno dentro nelle pagine. Da buoni lettori pigri, non amano le sorprese, né tanto meno il doversi applicare a comprendere il senso del testo che hanno davanti. La poesia, lo dico subito per evitare equivoci, è ben altra cosa. Niente di precotto o di facilmente digeribile, a volte è perfino dura da masticare, va ruminata, come fanno gli erbivori, ma, una volta assimilata, diventa parte integrante di noi stessi e perfino necessaria alla sopravvivenza quotidiana. “Nevica a Lussemburgo”, l’intensa raccolta poetica di Katia Merli, intriga il lettore fin dal titolo. Intendo, naturalmente, il lettore abituato a interrogarsi, quello che si lascia facilmente attrarre da qualcosa a cui non sa dare di primo impulso una risposta. Seducente fin dall’inizio, nel pieno significato che assume il termine, se-ducere, condurre, o meglio trascinare, verso sé in maniera imperiosa, dopo avere afferrato l’oggetto o l’individuo. Il senso del titolo lo spiega l’autrice stessa nella sua breve introduzione – prefazione, nella quale dà immediatamente un saggio dell’anomalo utilizzo dei termini presenti nelle liriche, parole, per così dire, dislocate in un altrove da sé, talvolta decisamente distante. Una scrittura che si potrebbe definire “sperimentale” e che ha il potere di suggestionare il lettore, allontanandolo da sentieri conosciuti per inoltrarlo in luoghi altrimenti inesplorati.

Colpisce e sorprende l’uso “irregolare” e audace dell’accostamento di termini insoliti. Mi è tornata in mente la bellissima lezione di poesia che Philippe Noiret, che interpreta Neruda, impartisce al postino Troisi circa l’uso degli aggettivi che servono a illuminare e ad esaltare gli oggetti, anche i più comuni, che la poesia sa trattare. Gli oggetti trasmettono emozioni, quando li si avvicina a termini che di solito non vengono usati per descriverli, si crea in tal modo una dissonanza rispetto a una armonia preesistente e, a volte, fin troppo scontata. Una dissonanza che, inizialmente, si percepisce come disarmonica, ma è proprio lì che il pensiero trasale per avere avvertito una specie di novità, ed è proprio lì che si sofferma e successivamente ritorna. Si sposta, in definitiva, l’attenzione dal senso al sentimento, ed è un po’ questo il compito che viene assunto sempre più di frequente dalla poesia, evocare più che rappresentare e mostrare. La lettura della raccolta poetica di Katia ha evocato anche il ricordo di una visita al museo Mirò a Barcellona. I quadri di Mirò sono stati la prima immagine che mi è apparsa, incoerenti e indecifrabili all’apparenza, specialmente per chi è abituato a immaginare l’arte come semplice rappresentazione del reale, quando invece è l’arte che costruisce – e spesso destruttura e ristruttura – la realtà. Abituati come siamo alla rappresentazione di figure ben note, ci smarriamo di fronte alle trasformazioni operate da parte degli artisti, siano essi pittori o poeti.

In molti casi, chi scrive utilizza le parole come un farmaco, per una vera e propria terapia a beneficio di un’anima dolente e ferita dall’esistenza. La scrittura in questi casi è decisamente migliore di un analgesico, perché agisce direttamente sulle cause, aiutando a prendere le distanze dal proprio vissuto, mentre un analgesico agisce soltanto sugli effetti. La neve evocata dal titolo, che vuole essere la metafora del desiderio di nascondere le brutture del mondo agli occhi di chi ne ha viste fin troppe, compare poi sia nella poesia di apertura che in quella che chiude la raccolta, ma con intenti marcatamente diversi. Ogni lirica contiene in sé pregi che lascio al lettore scoprire, anche a lui tocca fare la propria parte, dopotutto. Quanto a me, ne citerò alcune che mi hanno particolarmente colpito.

Nella poesia “ANIMA”, ho avvertito la sensazione di visitare un luogo sofferto e sofferente, visto come ricettacolo di tutte le brutture del mondo. La neve che cade serve a coprire e a nascondere quanto di terribile e doloroso il mondo presenta. “Nevica sul pensiero… “la voce… /esula parole sconcordi”.

“INVERNO A LUSSEMBURGO” è la visione di un ricordo estremamente nitido, come nitide sono le parole usate per tradurlo in segni, con una chiusa decisamente dolorosa, che richiama un cuore in inverno.

Nella lirica “MUSICA”, la poetessa racconta la sola cosa che continui ancora ad esercitare il suo potere salvifico e consolatorio. Ogni volta che appare tra i versi, il dolore sembra farsi da parte, scacciato e quasi sconfitto dal potere dei suoni, dei ritmi e delle melodie.

“MIRACOLO” è, infine, la poesia che conclude la raccolta, forse quella che sa maggiormente infondere una nota di ottimismo per il miracolo di un amore appena sbocciato. La chiusa “Nevica / ma solo a Lussemburgo” e questa neve è soltanto nel ricordo, accende e lascia intravedere nuove speranze.

Tutto questo – e molto di più, naturalmente – lo potrete trovare nel libro e nei versi di Katia. Una buona lettura!

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