SCRITTURE D’OGGI

“Senza padre e madre, né rimorsi” di Sergio Covelli (Edizioni Libreria Croce)

Non me ne voglia Sergio Covelli, se ho lasciato trascorrere tutto questo tempo, prima di esprimere un giudizio sulla sua opera. Se avessi dovuto esternare un’opinione a caldo, limitandomi alla lettura delle prime pagine e a qualche fugace sguardo al resto, avrei potuto dire semplicemente che il libro non mi piaceva. Richiesto di ulteriori chiarimenti, sarei anche stato in grado di motivare questa mia sbrigativa opinione: questo romanzo, avrei detto, non appartiene al mio Universo Letterario. Magari a Covelli sarebbe importato assai poco di questo giudizio sommario, ma a me sì, perché non sopporto l’idea di essere condizionato nelle mie scelte da limiti o pregiudizi, di qualunque genere.
Un Universo Letterario, per quanto vasto, è pur sempre limitato, quanto al pregiudizio, è costantemente in agguato, persino tra le pieghe della più innocente delle opinioni. Per questo, non appena avvertita questa fastidiosa sensazione di estraneità, mi sono, in un certo senso, imposto di arrivare fino all’ultima pagina, avendo contratto un debito morale verso l’autore e anche verso me stesso.
Confesso che quando mi sono trovato in mano il libro, ho subito pensato che avrei faticato molto a leggerlo, per via di quelle continue variazioni di caratteri tipografici che avevo colto sfogliando le pagine. Trovo insopportabile l’uso delle parole tutte a caratteri maiuscoli, persino in situazioni di comunicazione informale come le chat, denota mancanza di rispetto per l’altro (il destinatario della comunicazione) e un neppure troppo velato tentativo di prevaricare, di imporre la propria opinione su quella di tutti gli altri partecipanti alla conversazione virtuale. Non sopporto, in definitiva la gente che urla.
L’uso che Covelli fa di queste maiuscole non è, tuttavia, da considerarsi l’espressione di una volontà di sopraffare il lettore quanto piuttosto una necessità legata all’alto tasso emotivo delle situazioni narrate e – aggiungerei – vissute dall’autore. Perché di questo sono assolutamente convinto. Il libro può essere considerato a tutti gli effetti un romanzo di formazione, come ne annovera tanti la letteratura dell’Ottocento, specie quella romantica. Covelli, però, di quel genere di romanzo astrae la struttura portante, il confronto e, più di frequente, lo scontro con la rudezza della vita che aiuta a crescere, conservando, a modo suo, il finale teso e disperato di chi spesso da quella lotta esce sconfitto e sopraffatto.
Quanto allo stile di lettura adottato, ho rinunciato quasi subito alla classica lettura “lenta”, che porta a trattenere in bocca la singola frase o la singola parola per meglio assaporarla. Ho avvertito, infatti, un procedere del periodo a strattoni, un avanzare su un terreno sconnesso, che si apriva in improvvisi avvallamenti o si sollevava in creste acuminate, una miscela di sapori stonati. Il passaggio alla lettura “veloce” ha permesso, invece, di gustare a pieno la drammaticità della scrittura, mi sono lasciato avvolgere dal flusso delle parole, riuscendo in questo modo a cogliere il senso complessivo del periodo, nello stesso modo in cui nella pittura divisionista si tende a distogliere la vista dal singolo puntino per poter apprezzare meglio l’immagine nel suo complesso.
Pur con tutte le sue contraddizioni, con una scrittura che parla più allo stomaco che al cervello, è in ogni modo un libro nei confronti del quale non si avverte indifferenza, un libro che costringe a prendere una posizione, anche a quei lettori che, come me, prediligono i classici e la scrittura “esatta” e controllata. Avrei potuto approfittare di qualcuno dei diritti del lettore, elencati nel celebre decalogo di Pennac, ma avevo un conto aperto con me stesso, un impegno è sempre un impegno, che diavolo!
Ammetto, però, di continuare a preferire tutt’altro genere di letteratura, alla scrittura “byte-stream” della tastiera di un computer antepongo quella più lenta e sorvegliata della vecchia stilografica, una scelta che, tuttavia, continuo a vivere a malicuore, da tecnico, impregnato della cultura della società digitale quale sono, che auspica e si impegna, però, per l’avvento di un nuovo Umanesimo, in cui l’antica dicotomia tra le due culture possa dissolversi fino a scomparire. 
Conservo ancora la sana abitudine di scegliermi i libri da leggere e confesso che un libro così non sarebbe mai rientrato tra le mie scelte. Adesso, a lettura ultimata, so che avrei sbagliato, non si deve mai giudicare un libro dal titolo, né dalle prime pagine, né da quei caratteri tipografici così asimmetrici da irritarmi. Un libro è pur sempre un libro e un autore è pur sempre un autore, a lui si deve rispetto, non fosse altro perché ha avuto il coraggio di proporsi al pubblico, cercando di farsi apprezzare ma al tempo stesso rischiando di infastidire e, peggio ancora, di annoiare.
Le pagine devono essere sgorgate dalla penna (o più probabilmente, dal computer) di Covelli come sangue da ferite sempre aperte. C’è troppo di personale in quello che si legge per non avvertire la sofferenza di chi si racconta, se tutto quello che ha raccontato fosse inventato di sana pianta, Covelli dimostrerebbe di avere una fantasia inesauribile e una capacità narrativa di elevata qualità, oltre, naturalmente, un eccesso di realismo e di faccia tosta.
Che sia questo il futuro della letteratura? In questo caso, che fine farebbe il bello scrivere? Sono problematiche che meriterebbero di essere dibattute ed approfondite ben oltre queste brevi note, perciò mi limiterò solo ad enunciarle, anche se più di uno dei miei attenti lettori potrebbe trovare alcune parziali risposte tra le righe dei post del mio blog.  
A chi consigliare, infine, questo libro? A quei lettori “forti”, che ogni tanto hanno il coraggio di uscire dagli schemi, e a quanti si trovano a proprio agio con la scrittura affilata e abrasiva dei romanzieri d’oltre oceano. Sergio Covelli non ha niente da invidiare a parecchi di loro.

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