Nessuno mi ha insegnato ad insegnare, ho sempre dovuto sbagliare tutto da solo. Sbagliare è il prezzo che si paga per imparare qualunque cosa, a patto che si dedichi tempo a riflettere sugli errori commessi e si abbia l’umiltà di accettare di poterne commettere. Nessuno è mai abbastanza preparato per insegnare, al più per apprendere. Ad un insegnante che inizia il suo apprendistato capita, paradossalmente, quello che potrebbe capitare ad un tizio qualunque al quale, con l’unico vincolo di essere laureato in qualcosa, si metta in mano un bisturi, dicendogli: “Da questo momento, tu sei un chirurgo”.
Questo è, più o meno, quanto è capitato a me e a tanti altri, con la differenza che quel bisturi l’avrei dovuto usare per incidere le anime dei miei inconsapevoli pazienti, ignorando per di più la complessa anatomia dell’animo umano e rischiando di lasciarle invalide e mutilate per sempre. Un rischio impossibile da risarcire perché impossibile da rilevare e quantificare.
Quella che segue è la storia del mio inizio.
Entrato nell’arena una mattina di novembre, luminosa e tiepida per quanto lo consente la stagione, il primo impatto fu con una scala lunga e ripida che sembrava terminare in paradiso, anche se quello che mi attendeva in cima sarebbe stato l’inferno. Così, almeno, me lo avevano descritto i bene informati, quelli che molto prima di me si erano inoltrati, carichi di bagagli e di speranze, nell’insidioso sentiero dell’educare. Tutti avevano pensato di farsi scudo della propria cultura per sostenere gli assalti dei discenti, che non si limitavano solamente ad opporre una fiera resistenza a qualsiasi tentativo di acculturazione, ma replicavano duramente colpo su colpo.
Il mio cerbero si presentava sotto le spoglie di quello che oggi si definisce eufemisticamente “collaboratore scolastico” e che la mia pregressa esperienza di allievo dei diversi ordini e gradi di istruzione aveva catalogato sotto la voce “bidello”. “Venga avanti, professore!”, fu l’invitante messaggio che fece scendere dalla sommità di quei tornanti insidiosi.
Lo vedevo sporgersi dalla ringhiera che delimitava il ballatoio, lo sguardo fisso verso di me che avanzavo incerto, facendo oscillare leggermente la borsa che tenevo in mano, più che altro per darmi un contegno. Quella borsa praticamente vuota, salvo un paio di penne, una matita e un’agenda desolatamente priva di impegni, era il simbolo della mia inettitudine, il vuoto di una mente che si appresta alla battaglia. Tra poco avrei saputo chi ero, chi sarei stato dopo e, forse, cosa avrei fatto della mia vita dai contorni ancora troppo incerti.
Avevo sempre creduto che certe storie si leggessero in quei resoconti sulla scuola che tendono un po’ a romanzare e ad enfatizzare l’esperienza professionale di un docente, generalmente tranquilla e abitudinaria. Ricordavo, ad esempio, di avere letto in non so quale libro, forse un ricordo delle elementari, che un maestro aveva ricevuto il massimo apprezzamento dai suoi allievi quando aveva abbattuto un moscone con una fionda improvvisata, costruita con un elastico e una pallina di carta. Chissà quali prove sarebbero toccate a me! Chissà se poi sarei riuscito a superarle!
I miei ricordi di scuola si limitavano, a quel tempo, a quello che avevo visto, sentito o fatto stando dall’altra parte della cattedra. Storie di amicizie, di studi non proprio “matti e disperatissimi” e di episodi non sempre da rendere pubblici e da confinare possibilmente nel posto più recondito e buio della memoria.
Ma per tornare a me in quel momento, ricordo che dopo essermi fatto indicare dal bidello la strada per raggiungere la classe, previo inevitabile passaggio per la segreteria per “prendere servizio”, avevo cercato di raggiungere il luogo del mio apprendistato il più in fretta possibile. L’ora di lezione precedente era già terminata, come aveva informato il suono ringhioso della campanella, perciò mi ero affrettato, certo di essere ormai atteso.
Raggiunta la porta della classe, lasciata aperta dal docente che mi aveva preceduto, la prima cosa che mi colpì fu uno strano silenzio che proveniva, se mai un silenzio può provenire da qualche parte, dall’interno dell’aula. “Ecco”, pensai. “Sono in ritardo, e quelli se ne sono già andati”. Sì, ma andati dove? Sapevo, a memoria, che non ci si poteva allontanare da un’aula o addirittura dalla scuola, senza qualche autorizzazione. Dovevano esserci, per forza.
Difatti, fermo davanti alla porta, all’interno dell’aula, vedo un ragazzetto con in testa un banco. No, non un basco: proprio un banco, tenuto sollevato e appoggiato sulla testa! Dietro di lui, una catena umana di altri ragazzi nello stesso atteggiamento. Che fare? In una frazione di tempo avevo cercato di rivisitare tutta la mia conoscenza e tutta la mia esperienza di studente, dalle elementari all’università, per rintracciare, purtroppo senza successo, un episodio simile.
Dovevo ammettere che se avevano avuto intenzione di stupirmi, c’erano riusciti. E qui entrano in campo un paio delle tante doti di un insegnante: comunicativa e improvvisazione. Così, fermo all’altezza dello stipite della porta, intanto ero riuscito a bloccare la testa di quel corteo non autorizzato, poi avevo aperto una trattativa con quello che sembrava il leader di quel movimento dei banchi in testa.
“Dove andate?” e “Perché?”, furono, ricordo, le mie prime parole che rivolsi a uno studente. Domande semplici e legittime, alle quali nessuno si sarebbe mai rifiutato di rispondere. Dopo le repliche del capofila, aprii con lui una breve e veloce trattativa, il cui succo era: parliamone, magari seduti in aula. E così fu, i banchi vennero posati in terra e ognuno si rimise seduto al proprio posto. Avevo vinto la prima battaglia ma non avrei mai commesso l’errore di credere di avere vinto la guerra.
Una guerra psicologica, fatta di sguardi, sussurri e piccole provocazioni, come sarebbe capitato, anche in seguito, decine e decine di volte, a cui, però, non ho mai attribuito quel significato di lesa maestà che ho visto spesso fare infiammare altri colleghi. Così era cominciato il mio incerto cammino, fatto, un po’ come quello di tanti altri, di attese, di incertezze sul rinnovo del contratto annuale, di concorsi e di aspettative. Una strada molto spesso in salita, come avevano anticipato le fatidiche scale del mio primo giorno di insegnante, una strada che non mi sono mai pentito di avere percorso. Ma questa potrebbe essere un’altra storia.
-
Archivi
- Luglio 2020
- Giugno 2020
- Maggio 2020
- Marzo 2020
- Maggio 2019
- Aprile 2018
- Marzo 2018
- Gennaio 2018
- Settembre 2017
- Luglio 2017
- Giugno 2017
- Maggio 2017
- Aprile 2017
- Marzo 2017
- Febbraio 2017
- Gennaio 2017
- Dicembre 2016
- Novembre 2016
- Ottobre 2016
- Settembre 2016
- Novembre 2015
- Dicembre 2014
- Agosto 2014
- Luglio 2014
- Aprile 2014
- Marzo 2014
- Marzo 2011
- Aprile 2010
- Febbraio 2010
- Ottobre 2009
- Marzo 2009
- Novembre 2008
- Ottobre 2008
- Settembre 2008
- Agosto 2008
- Giugno 2008
- Maggio 2008
- Aprile 2008
- Marzo 2008
- Febbraio 2008
- Gennaio 2008
- Dicembre 2007
- Novembre 2007
- Ottobre 2007
- Settembre 2007
- Agosto 2007
- Luglio 2007
- Giugno 2007
- Maggio 2007
- Aprile 2007
- Marzo 2007
- Febbraio 2007
- Dicembre 2006
- Novembre 2006
- Settembre 2006
- Agosto 2006
- Luglio 2006
- Giugno 2006
- Maggio 2006
- Aprile 2006
- Marzo 2006
- Febbraio 2006
- Gennaio 2006
- Novembre 2005
- Ottobre 2005
- Settembre 2005
- Agosto 2005
- Luglio 2005
- Giugno 2005
- Maggio 2005
- Aprile 2005
- Marzo 2005
- Febbraio 2005
- Gennaio 2005
-
Meta
1 risposta a IL MESTIERE DI INSEGNARE