QUELL’INCUBO CHIAMATO VITA

Leggere è un’attività che fa sempre bene, rileggere ancora meglio. In questo periodo, causa una nuova malattia, anche piuttosto fastidiosa, ho cercato di passare il tempo dedicandomi alla rilettura di un testo del quale conservavo solo un vago ricordo, accompagnato da un senso di malessere. Si tratta di una delle più notevoli opere di Franz Kafka, "Il processo" – edizioni Mondadori. Complice anche il non buono stato di salute, mi sono particolarmente immedesimato nella storia, riuscendo, stavolta, a penetrare a pieno la lucida follia di Joseph K., il protagonista, che sceglie di morire pur di non ammettere una colpevolezza inesistente e salvarsi. La vita di K. è rappresentata come un sogno pieno di incubi, nel quale personaggi misteriosi e inquietanti appaiono dalle tenebre in squallidi e indecifrabili ambienti, come accade nei sogni peggiori. L’impossibilità di continuare a vivere, schiacciati dal peso della Legge, tanto più forte e potente di noi, è l’inevitabile conclusione di questo dramma; il protagonista preferisce accettare la sua condanna piuttosto che vivere una vita di dubbi e incertezze, dove il caso diventa ineluttabile necessità. Un testo scritto con la forza intellettuale di chi, come Kafka, vuole ribellarsi alla propria condizione di malato, impossibilitato a vivere una vita piena e serena, e fa dello scrivere la sua vera forza vitale. Uno stile disadorno, reso con particolare efficacia dalla traduzione di Ervino Pocar, ma sorretto dalla logica ferrea e sottile della consequenzialità delle azioni e dei pensieri. La colpevole innocenza del protagonista è la condizione in cui si trova l’intera Umanità, condannata per una colpa che non sa neppure di avere commesso. Se ne sconsiglia la lettura a chi ha già la sua quotidiana dose di incubi e affanni personali.

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